giovedì 9 luglio 2020

La bambina della masseria Rutiglia, romanzo breve ambientato a Pollena Trocchia durante l'ultima guerra

Qui di seguito propongo un brano tratto dal romanzo breve "La bambina della masseria Rutiglia" ambientato a San Gennariello, frazione del comune vesuviano di Pollena Trocchia, durante la Seconda guerra mondiale.

È appena l’alba con le gocce d’acqua color argento a coprire i sottili fili d’erba del ciglio del viottolo di campagna percorso da Carmelina che si è appena lasciata alle spalle la stalla dell’antica masseria “Rutiglia”: anche quella mattina si era vestita in fretta e ora con sé portava il solito fiasco pieno di latte, facendo attenzione a dove metteva i piedi. Per tutta la notte aveva piovuto e tante erano le pozzanghere lungo la stradina sterrata che attraversava frutteti e vigneti. 
‹‹Né uva “olivella”, né pere “stradone” e né “fioroni” di fichi, né mele “annurca”››, disse tra sé Carmelina che non aveva ancora compiuto undici anni. 
‹‹In questa stagione gli alberi non sono belli da vedere››, pensò lei che considera interessanti da guardare i vigneti e i frutteti solo quando sono colmi di uva e di frutta; in inverno inoltrato, invece, gli alberi sono senza foglie e senza frutti, sono spogli e sembrano spettri che immobili e silenziosi nella nebbia della gelida campagna la dominano. 
Camminava a piccoli passi e si accorse che ad un centinaio di metri da lei, vicino ad un ruvido e grezzo muro di cinta costruita con pietra lavica, c’era l’unica anziana vedova e senza figli della masseria “Rutiglia” che, curva per il peso degli anni e per i dolori di una vita, ispezionava con cura le fessure del muro dove probabilmente per sfuggire al gelo si era rintanato il suo amico rettile: un serpente di colore nero che durante i mesi estivi si lasciava avvicinare solo da lei e solo da lei accettava del cibo e qualche parola di conforto per le avversità della vita che in tempi di guerra tutti si aspettano di ascoltare. Ora però faceva freddo e il serpente non si faceva vedere e l’anziana donna che forse aveva perso anche il senso delle stagioni doveva essere preoccupata per lui.
Sul viottolo le pozzanghere erano proprio tante e bastava che un solo piede vi finisse dentro per ricevere l’aspro rimprovero della madre. Carmelina continua a fare attenzione perché sarebbe stato triste fare colazione con un solo bicchiere di latte condito da un ammonimento.
I campi dei frutteti erano seminati a rape che venivano mangiate dalle mucche: per dimostrare la propria riconoscenza ai nonni materni che regalavano loro del latte, Carmelina e le sue sorelle ogni pomeriggio si davano da fare per estrarre i tuberi dall’avida e gelata terra, così da raccoglierli su un carretto e portarli fino alla stalla, dove l’odore della paglia e del fieno le rassicurava offrendo loro un senso di protezione.
Davanti a Carmelina, ancora lontano, c’era il cancello in ferro battuto che consentiva l’uscita dalla proprietà della masseria sulla strada pubblica e lì, ogni volta che ci passava, si ricordava che aveva incontrato alcuni anni prima il padre che dall’Abissinia era ritornato inaspettatamente: sembrava un vecchio, con una folta barba che lo rendeva irriconoscibile e sulle spalle un sinistro sacco contenente tutto quello che era riuscito a racimolare in sei mesi di duro lavoro in Africa a costruire le strade dell’impero, dormendo in disastrate tende sulla nuda terra e a lottare anche contro i serpenti che di notte andavano ovunque col loro velenoso morso. Lì, proprio vicino al cancello della masseria, il padre l’aveva chiamata per nome e con le lacrime agli occhi per la gioia di aver visto una delle sue tante figlie, ma lei non si era lasciata avvicinare e correndo era tornata a casa per raccontare con la voce concitata alla madre che un vecchio aveva cercato di rapirla e metterla nel sacco per portarsela via e chi sa dove.

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