giovedì 23 aprile 2009

Il rione di Giorgio Tartaglia


Pollena Trocchia - Con la breve intervista che segue al geom. Raffaele Di Tuoro (1), sono state raccolte alcune informazioni sulla nascita del rione “Tartaglia” ubicato nel comune di Pollena Trocchia. I terreni che oggi accolgono villette e fabbricati anche di diversi piani con decine di appartamenti, erano, un tempo, di proprietà del signor Giorgio Tartaglia. Le prime costruzioni edilizie sono state realizzate negli anni Sessanta del secolo scorso e, a quel tempo, i primi residenti si conoscevano e si frequentavano. Oggi, invece, il rione “Tartaglia”, che si estende su circa dieci ettari, si presenta come un tipico quartiere dormitorio in quanto molti dei suoi abitanti sono dei perfetti anonimi.

Geom. Di Tuoro, lei ha conosciuto di persona il possidente Giorgio Tartaglia?
L’ho conosciuto al “Calasanzio” di Napoli in terza liceo, e da allora siamo rimasti fraterni amici fino a quando è morto.

Il signor Tartaglia coltivava direttamente lui i terreni di sua proprietà?No, non coltivava i terreni ereditati dal padre ma aveva dei coloni. Quando poi si procedette alla vendita dei vari lotti di terreno, garantì ai suoi coloni circa un terzo del denaro ricavato. Personalmente ho dovuto prendere atto che, in quell'operazione, Giorgio Tartaglia si accontentò di quanto gli spettava; soldi che poi investì nell'acquisto di qualche locale, così da garantirsi almeno una rendita. Con i fitti bloccati dei terreni, infatti, a stento percepiva i soldi per pagare le tasse.

In quale area dell'attuale rione era ubicata la casa del proprietario o dei coloni?
La masseria sorgeva nella zona dell’attuale via Apicella, e ospitava due famiglie di coloni dello stesso ceppo.

In sintesi, come è sorto il rione “Tartaglia”?
La lottizzazione fu ideata da un architetto di Ercolano o Torre con l’assistenza dell’avvocato Gaudino, e fu venduto soltanto un lotto ad uno dei coloni con clausole da trasmettere a tutti i futuri acquirenti. In due o tre anni, però, non riuscirono a vendere un altro lotto perché i prezzi praticati a Pollena non erano quelli cui aspirava l’architetto. Dopo due o tre anni l’avv. Gaudino suggerì a Tartaglia il mio nome e lui, ricordandosi che eravamo amici, mi telefonò. Con l’aiuto di un buon mediatore di Pollena cominciarono così le vendite a rate di piccoli lotti ad operai e artigiani del paese che, in parte, hanno costruito direttamente aiutati dal lavoro delle mogli e dei loro ragazzi. Successivamente vi sono state le vendite di suolo a coloro che avevano almeno i soldi per pagare il terreno, e soltanto verso la fine a coloro che avevano anche i soldi per costruire. All’epoca, in qualsiasi lottizzazione, si usava che il notaio fosse sempre lo stesso; anche per il frazionamento e per la progettazione ci si rivolgeva sempre alla stessa persona. Con la lottizzazione “Tartaglia” il notaio era di fiducia dell’acquirente a condizione che, all’atto della stipula, fossimo presenti io oppure l’avv. Gaudino, e ciò affinché venissero imposti i patti stabiliti con il primo atto di vendita. Anche per il tipo di frazionamento il perito poteva essere di fiducia dell’acquirente purché io fossi presente alla misurazione e controllassi l’elaborato per conto del Tartaglia. Tranne i primi, la maggior parte dei tipi di frazionamento sono stati elaborati da altri periti. Anche la maggior parte delle costruzioni sono state progettate e dirette da diversi tecnici. Personalmente, ho curato quelle dei concittadini e quasi tutte gratuitamente, o con il pagamento delle sole spese vive.

Uno dei problemi del rione “Tartaglia” è la mancanza di aree pubbliche a verde attrezzato, piazze e marciapiedi. Lei come si spiega questa lacuna?
Questo era il cruccio di Giorgio Tartaglia: più volte si era offerto di donare il terreno al Comune chiedendo di sapere quale parte doveva riservare a questo genere di opere pubbliche. Gli amministratori comunali, però, volevano che fosse lui a realizzare le opere. Questa richiesta era soltanto una scusa: gli amministratori comunali volevano, come più volte detto esplicitamente, che Tartaglia mi togliesse l’incarico di tutelare i suoi interessi, cosa, però, che non ha mai voluto fare, nonostante io gli dicessi più volte di accontentarli, in quanto avrei potuto ugualmente “guardare le cose da lontano”. Testardamente, e lo ricordo bene, Tartaglia ha sempre detto: “non vendo più un metro quadrato di terreno ma essi non possono entrare nelle mie cose”. (a cura di Carlo Silvano)
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(1) Raffaele Di Tuoro è nato a Pollena Trocchia nel 1928, e dal 1998 redige, stampa e diffonde “Il Cittadino”, periodico di informazione indirizzato e aperto ai suoi concittadini di Pollena Trocchia.

martedì 21 aprile 2009

1958 e 1964: disastri aerei a Pollena Trocchia

“Bonn, 16 febbraio 1958 – Il comando delle Forze aeree degli Stati Uniti in Europa ha annunciato stamane da Wiesbaden che un apparecchio "C-47 Dakota", avente a bordo sette uomini d’equipaggio e nove passeggeri, in volo tra Napoli e Atene, risulta disperso e che sono state intraprese ricerche”.

Con questa nota del 17 febbraio del 1958, il giornale “Il Mattino” di Napoli informava i propri lettori della scomparsa di un velivolo americano che, dopo aver effettuato il rifornimento di carburante sulla pista militare dell’aeroporto di Capodichino, era ripartito alle ore 22.22 diretto prima ad Atene per poi proseguire per Istanbul.
Dopo un primo contatto radiofonico con la torre di controllo, il pilota dell’aereo non forniva più alcuna notizia. Sulle prime non si ebbe particolare preoccupazione da parte dei controllori di volo; in seguito, però, col passare delle ore e del completo silenzio radio, si temette il peggio: alle prime luci dell’alba furono avviate le ricerche, subito ostacolate dalle pessime condizioni meteorologiche.
Dato che l’aereo statunitense era tenuto a seguire una rotta ben precisa, e cioè costeggiare la Campania e la Calabria per poi dirigersi verso Atene, i ricognitori partiti da Tripoli, Malta, Catania, Atene e dalla portaerei “Saratoga” che in quei giorni sostava a Napoli, si concentrarono inutilmente nelle zone che l’aereo doveva attraversare. Le ricerche continuarono per ben quattro giorni e nonostante le avverse condizioni meteorologiche. L’aereo, però, non era caduto in mare ma si era schiantato sul monte Somma.

Su “Il Mattino” del successivo 20 febbraio, infatti, si legge che si deve a Raffaele Mercogliano, una guardia municipale del Comune di Pollena Trocchia, il primo avvistamento dei rottami dell’aereo. Dal giornale leggiamo che Mercogliano “stava discutendo ieri mattina in una zona alta di Pollena con alcuni compaesani sulle condizioni del tempo. Ha levato gli occhi verso la montagna, ed in quel preciso istante un raggio di sole ha fatto luccicare qualcosa sul costone nord-ovest del Cognoli. A prima vista il Mercogliano, pur non dando eccessivo peso alla cosa, riteneva ugualmente doveroso informare il Sindaco di Pollena Trocchia”. Ed il Sindaco, a sua volta, provvedeva ad informare telefonicamente i carabinieri della caserma del vicino comune di Sant’Anastasia.

Da “Il Mattino” si apprende che – verso le ore 12.20 – un ricognitore americano "B-26" avvistava i rottami del "Dakota" scomparso, e le squadre di soccorso giunsero nel pomeriggio sul punto localizzato: un boschetto di acacie a 1065 metri di altezza (1). Alle ore 16.09 avviene il ritrovamento, che il cronista così descrive: “Uno spettacolo orrendo si presentava allora agli occhi di quanti si sono avvicinati per primi al relitto. Dieci macchie nere sulla neve: dieci corpi orrendamente mutilati e semicarbonizzati. Cinque e forse sei, sotto l’unica ala rimasta apparentemente integra, ammucchiati come in un disperato abbraccio, tre all’altezza della sconquassata carlinga ed il decimo bocconi a qualche metro dall’aereo, col capo ricoperto ancora da un casco bruciacchiato semiaffondato nella nuda terra. L’orologio da polso di una delle vittime era fermo alle 22.30. Forse un guasto all’altimetro deve aver ingannato il pilota che avrebbe ritenuto di aver già aggirato il Vesuvio, di qui l’urto”.

Secondo un giornalista de “Il Mattino” i sedici americani sarebbero morti tutti sul colpo; il giornale “Roma”, invece, offre un’altra versione riportando le affermazioni dell’allora Sindaco di Pollena Trocchia, avv. Antonio Di Tuoro, il quale, insieme al vigile Mercogliano, ad un assessore e ad un consigliere comunale, fu tra i primi ad arrivare sul luogo della sciagura. “L’aereo – disse Di Tuoro – giaceva reclino su una montagnola con le ali staccate, una adagiata quasi al fianco della carlinga, l’altra scagliata a circa settanta metri di distanza. La parte anteriore della fusoliera era letteralmente esplosa. Uno dei cadaveri aveva le mani strette intorno alle tempie. Si comprimeva ancora le orecchie come per non udire più… in una delle tasche della sua lacera giacca abbiamo trovato un portafoglio, in esso era contenuto un documento militare che stabiliva il suo itinerario: Belgio, Germania, Italia, Grecia, Turchia, Spagna e Gran Bretagna. E’ venuto invece a morire quassù. Se è rimasto in vita, come penso, la sua deve essere stata un’agonia terribile. E pensare che se non vi fosse stata tanta foschia in questi ultimi giorni i rottami dell’aereo sarebbero stati avvistati immediatamente. Tutto ha congiurato perché i soccorsi non siano arrivati in tempo”.

Oltre all’incidente del 16 febbraio 1958, il monte Somma è stato teatro di un’altra sciagura aerea: la notte di Pasqua del 1964 un altro aereo si schiantò sul versante che rientra nel territorio del Comune di Pollena Trocchia (2). Anche in quell’occasione si registrò un elevato numero di vittime e, purtroppo, si verificarono anche episodi di sciacallaggio. Tre mesi dopo la sciagura del 1964 una persona di Pollena – che ho avuto modo di ascoltare – ritrovò sul posto del disastro altri resti umani e, in quel luogo, innalzò una croce in legno, la quale, però, rimase in piedi solo per pochi anni. (a cura di Carlo Silvano)

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(1) Molto probabilmente è da verificare il luogo dove è avvenuta la sciagura, in quanto sembra difficile che possa essersi verificato a 1065 metri di altezza, così come riportato dal giornale. Al riguardo si rammenta che il monte Somma ha un'altezza di 1.132 metri nella Punta Nasone.

(2) L'aereo si schiantò su un castagneto di proprietà della parrocchia San Giacomo di Pollena. Nell'autunno del 1988, in compagnia di diverse persone, tra cui il parroco don Giuseppe Cozzolino, ebbi modo di visitare il luogo della sciagura: c'era ancora qualche rottame dell'aereo.

domenica 19 aprile 2009

La cappella di San Martino, extra villam


Pollena Trocchia. Una delle cappelle più antiche di Pollena doveva essere quella di San Martino sita molto probabilmente nei pressi dell'odierna località Carcavone, sul monte Somma, e scomparsa alla fine del XVIII secolo in seguito ad una terribile alluvione (quasi certamente quella del 1794).




Ancora oggi questa località vive in un profondo stato di degrado idrogeologico dovuto all'attività di due cave che per anni hanno estratto sabbia per uso edile. Le prime notizie che abbiamo della cappella di San Martino risalgono alla visita pastorale dell'arcivescovo di Napoli, il cardinale Carafa, del mese di agosto 1542: <<Et visitando capellam Sancti Martini, extra dictam villam, repertum fuit quod est rettor abbas Fabritius Campanilis, qui postea comparuit et produxit litteras provisionis sibi facte per b.m. Donatum, episcopum Hysclanum et vicarium Neapolitanum, per quem provisum fuit de dicta capellania vacante tunc per <...> Honorati Ricca. Constat per easdem litteras subscriptas manu condam notarii Constantini Ferrarii sub anno Domini 1527, die V° mensis aprilis>>.

Della cappella di San Martino parla anche lo storico locale Ambrogino Caracciolo riportando la testimonianza di alcuni contadini, i quali asserrivano che un tempo la cappella era un convento di frati. Il Caracciolo aggiunge che: <<...è ferma convinzione dei singoli contadini che ivi debb'esser nascosta una statua di S. Martino a cavallo tutta d'oro massiccio. Tale opinione però che si basa soltanto su una leggenda, credo non debba avere alcun fondamento>>.

Nel terzo libro dei matrimoni dell'Archivio Parrocchiale della chiesa di San Giacomo Apostolo di Pollena si accenna alla cappella di San Martino allo Stucchio. Tale cappella non deve essere in alcun modo confusa con quella del Carcavone dovendo trattarsi della cappella del Carmine retta dai padri Certosini; evidentemente era intitolata anche a San Martino dovendo avere come riferimento appunto la certosa sita nei pressi di Castel Sant'Elmo a Napoli. Molto probabilmente la cappella di San Martino al Carcavone fu fondata dai padri Certosini e non è da escludere una loro stabile presenza dando così fede alla testimonianza dei contadini citati dal Caracciolo. Se così fosse bisognerebbe concludere che il convento dei Certosini sul colle di san Martino a Napoli aveva in passato non poche proprietà nel territorio di Pollena. Tuttavia una eventuale presenza monastica a san Martino era certamente anteriore al 1700: nei primi anni del XVIII secolo infatti la cappella era curata dal sacerdote Francesco Di Leone, originario della Calabria (quasi sicuramente di Crotone) e residente nel casale di San Sebastiano al Vesuvio presso la casa della signora N. Felice Frezzi.

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Tratto dal volume "La comunità di Pollena dal 1760 al 1819 - Note di storia sociale e religiosa", di Carlo Silvano, stampa OGM 1998, pp. 120.

Villa Santangelo: un gioiello perso per sempre


Pollena Trocchia. E' andata persa per sempre, nonostante Ambrogino Caracciolo scrisse che intorno ad essa si fosse svolta la storia di Pollena di questi ultimi secoli. Stiamo parlando di villa Santangelo, edificata nel borgo cittadino nella prima metà del Seicento e distrutta alcuni decenni fa per costruire uno dei tre edifici dell'Istituto Suore degli Angeli.

Le principali notizie sulla storia di questa villa sono raccolte in un volume di Ambrogino Caracciolo, intitolato "Sull'origine di Pollena Trocchia e sulle disperse acque del Vesuvio e sulla possibilità diun sfruttamento del Monte Somma a scopo turistico". In questo libro (pubblicato nel 1932 e ristampato nel 1991 dalla Pro loco "G. Donizetti"), l'autore sostiene che la villa fu fatta costruire dalla famiglia Capece Scondito, ed in seguito, nel 1736, fu acquistata dal marchese Paolo Francone di Salcito. Con i nuovi proprietari la villa si arricchì di altre strutture e locali progettati dall'architetto Michele Massa. Fu così edificato un nuovo appartamento con una grande galleria, e realizzate delle sale per ospitare l'archivio e la biblioteca di famiglia. Il Caracciolo riferisce che per la costruzione di questi locali e per l'ampliamento della scuderia, furono necessari l'acquisto e la demolizione di un gruppo di case e di un'infinità di casupole. Quest'ultima nota è importante per immaginare quale poteva essere all'epoca la struttura urbanistica del borgo di Pollena. Un altro tesoro di questa villa era il suo parco che, con ogni probabilità, doveva essere molto più esteso di quello attuale. Il Caracciolo sostiene che la famiglia Francone ospitò a Pollena numerosi aristocratici e anche il Vescovo di Sant'Agata dei Goti, S. Alfonso dei Liguori. In seguito la villa fu acquisita dalla famiglia di Nicola Santangelo e, tra l'altro, il Caracciolo scrive: "Durante il lungo governo del Santangelo i più illustri personaggi del regno furono di passaggio per Pollena, per rendere atto di ossequio al potente ministro, e lo stesso re Ferdinando con tutti i principi della sua famiglia vi venne un giorno da Portici a schiena d'asino per un'improvvisata che parve piuttosto dovuta ad un intrigo di corte. Infine nel 1845, quando Napoli ospitò per un solenne congresso i principali scienziati d'Europa, Nicola Santangelo li convocò tutti a Pollena ad un sontuoso banchetto di cento coperti". In questa villa, inoltre, furono raccolte una ricca collezione di stampe e una quadreria provenienti dal palazzo dei Santangelo a Napoli che subì delle lesioni provocate dalle acque del Serino.

Se la perdita di villa Santangelo rappresenta un gravissimo attentato alla storia e alla cultura locale non bisogna credere però che tutto sia andato perduto. Occorrerebbe rivalutare il parco e raccogliere ulteriori documenti e notizie storiche sulla villa, in modo da divulgarle anche mediante una pubblicazione ed una mostra storica. Solo con la conoscenza del proprio passato, infatti, i cittadini e gli amministratori pubblici possono apprezzare il proprio paese ed impegnarsi per migliorarne la qualità della vita.

Riguardo a villa Santangelo qui di seguito riporto un brano tratto da "La bambina della masseria Rutiglia":

‹‹Intorno al 1736 – raccontò la maestra durante una lezione – la villa apparteneva al marchese Paolo Francone e, in seguito, fu di proprietà del ministro Nicola Santangelo che spesso ospitava personalità e anche scienziati provenienti da lontane nazioni››. 
Carmelina ascoltava incuriosita la maestra restando seduta e composta nel suo banco e guardando oltre la finestra dell’aula, verso la residenza nobiliare per intravedere qualche eventuale persona che potesse rassomigliare a un re o ad un ministro, e guardava anche oltre il tetto della villa, dove le rigogliose e verdeggianti cime degli alberi indicavano l’esistenza di un boschetto come luogo ideale per passeggiare e conversare accanto a gentiluomini e dame. Un boschetto che lei, dal suo banco, poteva solo immaginare, ma che un giorno per i suoi figli diventerà un luogo di scoperta per la presenza di misteriose grotte buie, vasche d’acqua zampillante limpida e fresca con guizzanti pesciolini rossi, arcani sentieri ricoperti di un muschio verde smeraldo ed eleganti statue bianche di marmo pregiato, così da allietare la loro infanzia popolandola di mitici eroi, fantastiche avventure e sereni ricordi.

Per informazioni sul libro cliccare "La bambina della masseria Rutiglia" di Carlo Silvano 




La chiesa di San Giacomo di Pollena: un patrimonio che appartiene a tutti

L'edificazione dell'attuale chiesa dedicata a San Giacomo Apostolo di Pollena si deve ad alcuni sacerdoti che raccolsero il denaro occorrente e ne seguirono i lavori. E se in genere ogni opera consacra alla memoria dei posteri il nome del proprio architetto o di chi l'ha commissionata, una peculiarità della chiesa di San Giacomo è che grazie ad alcuni documenti conservati presso l'Archivio Storico Diocesano di Napoli, conosciamo anche i nomi di diversi operai che con le proprie mani fabbricarono un tempio che da alcuni secoli rappresenta il simbolo dell'identità religiosa e sociale della comunità locale.

Dagli Atti della visita pastorale compiuta dal cardinale Luigi Ruffo Scilla nel 1818, si apprende che fu don Andrea Ilardo (parroco dal 1760 al 1775) a raccogliere le prime offerte, mentre a far iniziare i lavori per la costruzione della chiesa fu don Filippo Coppola (parroco dal 1775 al 1785). Nel corso dei lavori tra coloro che prestarono la propria opera si menzionano il maestro "indoratore" Lorenzo D'Ambrosio, e i maestri "stuccatori" Antonio e Giuseppe Vignati. Per la realizzazione dell'altare maggiore fu chiamato lo scultore Domenico Tucci, il quale realizzò - su disegno dell'ingegner Giovanni Piscicelli - pure le due acquasantiere di bardiglio collocate ai due lati dell'ingresso alla Chiesa. Dopo la benedizione della chiesa, avvenuta nell'ottobre del 1787 con l'allora parroco Francesco Rossi, i lavori continuarono almeno fino al 1794.

Da uno scritto del Rossi che doveva rendere conto del proprio operato e del denaro speso alla curia arcivescovile di Napoli, sappiamo che intorno al 1790 un operaio del luogo, di nome Antonio Ascione, lavorava "nel fare pietra, e cavare lapillo servibile per le fabbriche della Chiesa". Il materiale veniva estratto da una cava sita in una località di Pollena denominata "de Bonati". Da questa cava, poi, il materiale veniva trasportato alla chiesa in costruzione da un carrettiere del paese di nome Vincenzo Busiello. Un altro operaio, Giuseppe De Luca, tagliava e preparava le pietre "dolci".

I lavori per terminare la chiesa dovettero continuare almeno fino al 1794: in un decreto arcivescovile del 19 ottobre del 1793 si legge infatti che ad un abitante del luogo, Vito Antonio Sannino, fu prescritto per penitenza un lavoro per cinque mesi presso il cantiere della chiesa di San Giacomo. Al Sannino, si legge nel decreto, fu chiesta questa penitenza perché aveva sposato una sua parente di primo grado.
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Altre informazioni e notizie sulla chiesa di san Giacomo Apostolo di Pollena si possono reperire dal volume "La comunità di Pollena dal 1760 al 1819 - Note di storia sociale e religiosa", di Carlo Silvano, stampa OGM 1998, pp. 120.