domenica 7 giugno 2009

Da Melbourne un sogno per Pollena Trocchia

Fino a 19 anni è vissuto a Pollena Trocchia, in provincia di Napoli, poi, pur avendo dal 1979 al 1984 casa nel suo paese di origine, ha iniziato a lavorare altrove e dal 1987 risiede a Melbourne, anche se negli ultimi anni vive a cavallo tra l'Australia, Buenos Aires e l'Italia. Stiamo parlando del giornalista Rosario Scarpato che lavora come produttore televisivo e, fino a qualche tempo fa, è stato impegnato pure come docente universitario. Quest'ultima attività, però, l'ha lasciata perché non gli consentiva di viaggiare così come desiderava. In Italia i programmi di Scarpato vengono trasmessi su Rai Sat e la sua ultima serie si intitola “I viaggi del Goloso Globale” (canale 405 Sky). Siamo riusciti a rintracciare il dottor Scarpato e a rivolgergli alcune domande.
Dottor Scarpato, possiamo iniziare questa intervista con un suo ricordo di bambino che scorazzava libero per le viuzze del borgo di Trocchia? Più che i ricordi di infanzia mi piace ricordare le battaglie "sociali" che abbiamo fatto da adolescenti con un gruppo di amici. Era la nostra maniera per essere liberi. Cose che oggi fanno sorridere, ma che al tempo furono importanti: la bancarella pirata della domenica mattina, davanti alla chiesa, all'uscita della prima messa. Vendevamo di tutto, dalla verdura alle calze di nylon. A prezzo "equo", come si dice oggi. Erano tempi di carovita e noi chiedevamo un mercato settimanale che ancora non c'era a Pollena e che i commercianti, amici dei politici, ostacolavano. Ma anche tante altre cose, come i sit in sui binari della Circumvesuviana perché tutti i treni fermassero anche nella piccola stazione di Guindazzi, ubicata nella frazione di Trocchia, le raccolte di aiuti per terremotati e alluvionati. Tutto al di fuori dei partiti... Fino alle raccolte "differenziate" per finanziarci: volevamo fare una radio libera, nel 1976 credo, una delle prime. E la facemmo, buona parte dei fondi ci vennero dalla gente di Trocchia che ci diede prima cartoni e cartacce, poi stracci e infine rottami.

Palazzo Pistolese (in origine di proprietà della famiglia Seripando)

e la chiesa parrocchiale di Trocchia

Come si chiamava questa emittente? Radio Antenna “Veseri”, come il fiume che un tempo attraversava il territorio comunale di Pollena Trocchia.
Lei, nel 1983, ha pubblicato il volume "Apolline e Trocla" dedicato proprio alla storia e alle tradizioni del suo comune di origine. Di questo libro cosa le è rimasto nel profondo dell'animo? Il nome Pollena Trocchia, a quei tempi - e ancora oggi -, suscitava una specie di ilarità. C'era chi nemmeno credeva che esistesse, quasi fosse il fantomatico Puntillo Superiore del film di Troisi, e il libro servì un poco a fare giustizia. E' vero che un tempo sia Apolline che Trocla erano borghi rurali, ma è anche vero che furono sempre molto vicini a Napoli, come città. Prima di tutto vicini geograficamente (6 km da Ponticelli, ultimo quartiere di Napoli, e 11 Km dal centro) e poi perché per 4-5 mesi all'anno a Pollena Trocchia, dal Settecento fino ai primi del Novecento, venivano a villeggiare decine e decine di famiglie della Napoli bene, con seguito e servitù. Un pezzo di Napoli che si trasferiva annualmente a Pollena Trocchia. E all'occasione venivano anche dei famosi stranieri napoletanizzati, come Gaetano Donizetti, che a Trocchia veniva a soggiornare per il vino e per poter comporre. Cose che "provai" con documenti, dopo la pubblicazione di “Apolline e Trocla”, in un libro a più mani sul grande musicista di origine bergamasca.

Villa Trinchera

Parliamo dell'Australia. Per lei cosa significa vivere in questo "continente"? Io ci andai per vacanza e mi considero ancora in vacanza. Un giorno forse ritornerò, ma difficilmente, in Italia, che pure amo. Melbourne è una città ideale, non avrà il Colosseo, i Faraglioni, la torre di Pisa, ma ha una vita comunitaria e un rispetto per le regole sociali di convivenza senza eguali. Come diceva un mio amico, per vivere bene in Australia, basta poco: rispetta la legge, fatti la doccia tutti i giorni e prova a parlare un po' di inglese. Per questo a Melbourne possono convivere pacificamente 152 differenti gruppi etnici. Un altro mio amico raccomandava di non scrivere mai nelle cartoline, nelle email o nelle lettere a amici e o parenti in Italia, che in Australia si sta bene. Per evitare che ci vogliano venire anche loro.
Ha modo di frequentare altri italiani che vivono in Australia? Non più. Al principio di più, perché parlano una lingua molto vicina alla mia, ma erano e sono molto diversi da me culturalmente. Alcuni hanno lasciato l'Italia 50 anni fa e non sono più tornati. Un gap culturale troppo grande. Frequento invece italiani che sono arrivati di recente per lavoro, e ho amici di tutte le razze: è l'Australia! Negli ultimi due anni sto molto tempo a Buenos Aires e anche lì è la stessa cosa.
In base alla sua esperienza personale, cosa può dirmi dello "stato di salute" delle comunità italiane presenti in Australia? Finiranno per "sciogliersi" in una grande nazione o continueranno a mantenere le proprie caratteristiche? Viviamo, come si dice, in un mondo “glocale” (termine che indica la fusione tra globale e locale, ndr). Il concetto di nazione, di appartenenza si è profondamente modificato. Io mi ritengo un by product dell'era globale (jet, telefono, internet, frequent flyer, abolizione dei visti, ecc.), ma le radici non smettono di essere locali. Parlo di valori, non di folklorismo. La pasta la mangiano più al dente gli australiani che gli italiani d'Australia. E parlo di valori ovviamente italiani. Io non sarò mai Zen, sono cresciuto con modelli attivisti (come il "volli, sempre volli fortissimamente volli" di Alfieri), riesco ancora a guidare - e parcheggiare - a Napoli, mi piace il presepe, amo l'opera. Il mio ideale di comunità sociale, politica ed economica però è l'Australia. Non so se questo equivale a sciogliersi o a perdere identità. Io credo di no. In Australia si vive meglio. E solo questo conta. Il resto, ancora una volta, è folklore (come il "luntane a Napule nun se po' sta"). D'altronde un tempo anche gli italici la pensavano così. I romani scrivevano sulle porte delle città colonizzate: Ubi bene ibi patria. Dove si sta bene, quella è la patria.
Lei certamente ha dei sogni nel cassetto. Almeno uno lo può rendere pubblico in questo blog?
Ogni tanto mi viene voglia di fare qualcosa a Napoli. Che so? Impegnarmi per creare una qualche attrazione culturale o turistica di livello internazionale. Napoli ha tante potenzialità, ma ogni volta che ci provo mi scontro con le stesse cose: la superficialità, il pressapochismo, la corruzione... E quello che più mi indispone che, passano gli anni, e le cose stanno in mano sempre alle stesse persone. Una oligarchia di potere, nei media, nelle istituzioni, nelle imprese, che continua a lamentarsi di tutto, delle carenze della città, della camorra, dimenticando che questa situazione l'ha creata essa stessa. Ah, e parlando di sogni; una volta volevo proporre un Festival Internazionale delle Terre Vulcaniche (natura, gastronomia, arte, ricerca ecc), da fare a Pollena Trocchia. Sì, proprio lì. Una cosa ben fatta, per rilanciare l'immagine di tutta l'area. Quelli a cui l'ho detto mi hanno guardato come se fossi un marziano. (a cura di Carlo Silvano, casilvan[chiocciola]libero.it)

mercoledì 13 maggio 2009

Da Pollena al Vermont: l'avventura umana e professionale di Barbara

Grazie ad internet ho rintracciato una cara amica: ci siamo conosciuti quando da giovani volevamo offrire il nostro “mattone” per costruire una “Pollena” più a misura d'uomo, attraverso le pagine di un giornalino chiamato “Veseri 2000”. In seguito, come altre persone, per motivi di lavoro ci siamo persi di vista. Ora, però, abbiamo ripreso un legame: ho ritrovato Barbara Alfano e, grazie all'intervista che mi ha rilasciato, ho conosciuto e apprezzato tante cose nuove di lei. Pur vivendo in continenti diversi con internet possiamo ritornare a sentirci amici.

Per quanti anni hai abitato a Pollena?
Dalla nascita fino al 1996, quando mi sono trasferita a Napoli.
Da quanto tempo vivi negli Stati Uniti e qual è il tuo lavoro?
Mi sono trasferita negli USA nel 1999, per un dottorato di ricerca in Letterature Comparate. Ora sono docente di Lingua, Letteratura e Cultura Italiane al Bennington College, in Vermont.

Barbara... trasloca

Attualmente che genere di legami hai con la tua comunità di origine?
Torno a Pollena una o due volte all'anno anche per lunghi periodi, da uno a due mesi ogni volta. Non sono legata in nessun altro modo alla comunità se non attraverso la famiglia e gli amici. Sono certamente molto legata al paese stesso, ai luoghi, alle strade, agli odori, ai negozi, alle presenze...

Vivere negli USA tra opportunità lavorative e difficoltà quotidiane. Cosa mi racconti?
La vita qui è talmente diversa che non so da dove cominciare a parlartene...

Prova allora a darmi delle idee, più che dei dettagli.
La vita qui accade, non si ferma. Qui hai degli obiettivi e li raggiungi. Non sei alienato dal tuo lavoro, cominci una vita nuova anche a cinquant'anni. Le possibilità professionali sono quelle che concedi a te stesso: nessuno ti blocca, né ti spinge se non ti muovi da te. Qui la diversità è reale: in questo momento ho quattro studenti davanti a me che stanno facendo un esame: due hanno vent'anni e due più di cinquanta.

Continua...
Stasera andrò al supermercato che troverò aperto fino alle ore 22.30 - perché vivo in un paese piccolissimo, altrimenti sarebbe aperto 24 ore su 24 -, e lì troverò tutti i prodotti biologici che voglio, sceglierò di mangiare come mi pare e secondo le tradizioni di mezzo mondo.

consegna del dottorato (accanto a Barbara c'è il direttore di tesi, prof. Djelal Kadir)

E per quanto riguarda le difficoltà?
Le difficoltà, profonde, che hanno tutte le persone cresciute in una cultura mediterranea dove il rapporto con il proprio corpo, il corpo dell'altro, il rapporto con gli spazi, e il modo di intendere le relazioni personali sono molto diversi da quelli di una cultura di tradizione anglosassone. Per quanto riguarda il lavoro, l'affermazione professionale, e la possibilità di realizzare le mie aspettative, non ho avuto nessuna difficoltà; ero pronta per l'“America” da molto, molto prima di venirci.

Alla luce della tua esperienza negli USA cosa significa, per te, la parola “integrazione”? E come italiana che vive all'estero, quali sono le tue considerazioni sulle problematiche relative all'integrazione di persone che arrivano in Italia per cercare migliori condizioni di vita?
Quando ero studentessa di dottorato, nella mia classe di Critica Letteraria eravamo seduti intorno ad un tavolo, tutti i giorni, io, italiana, un'irlandese, un ebreo americano, un'israeliana, una musulmana kwaitiana, una cinese, due kenyote, un giapponese, un marocchino e un tunisino. Bei tempi. Mi mancano. Nel periodo del Ramadan, gli amici musulmani lasciavano l'aula dopo il tramonto per qualche minuto e andavano a mangiare un boccone. A nessuno sembrava strano. La mia amica kwaitiana, ogni giorno alle tre apriva il tappetino nel suo ufficio e pregava: un ufficio che divideva con altri dieci studenti, dieci cubicoli con altrettante scrivanie. A nessuno sembrava strano. Il 9 settembre 2001, io e la mia amica kwaitiana siamo andate a New York ad accompagnare i figli di lei all'aeroporto. Alle tre ci siamo fermate perché doveva pregare. Abbiamo pregato insieme, lei verso La Mecca, io verso la mia versione di Dio. Sempre quell'anno siamo andate insieme a vedere l'Oedipus Rex, a New York, messo in scena dalla compagnia nazionale di Atene. Non era l'unica a portare il velo in teatro, ce n'erano tante di donne col velo. La sera prima eravamo a casa sua e mangiavamo per terra, sul tappeto, con le mani. Mi ricordo che in quell'occasione il marito mi regalò la versione inglese autorizzata del Corano perché ero curiosa di capire un paio di cose. Ho un'altra amica carissima di tradizione musulmana, diversa però dalla prima. Lei è pakistana; ha sposato qualche anno fa il figlio di un diacono cattolico, e quest'anno ha preparato per la prima volta il pranzo natalizio per i suoceri e la famiglia del marito. Conservo la foto del suo matrimonio, celebrato in una moschea a New York. Poi lo hanno ricelebrato in Pakistan, poi in America... diversi dei miei amici sono coppie miste e i loro matrimoni sono sempre affari di due o tre stati! Vorrei aggiungere un'ultima cosa.

Dimmi pure!
Riguardo all'aspetto giuridico, siamo tutti soggetti alla legge del Paese in cui ci troviamo e non credo debba o possa essere altrimenti. Le leggi si possono e si devono migliorare, dove necessario.

Vivendo negli USA c'è una caratteristica del tuo essere italiana che hai “riscoperto” e di cui puoi dirti fiera?
Non mi piace la parola “fiera”. Fortunatamente, storicamente gli italiani hanno sempre avuto quella che viene indicata dagli addetti ai lavori (studiosi e intellettuali) come “weak national identity”, identità nazionale debole, nel senso che non siamo dei forti nazionalisti - con le dovute eccezioni ideologiche e storiche -, e meno male, anche se purtroppo la classe governativa del nostro paese sta cercando in tutti i modi di farci irrigidire dentro immaginari scafandri nazionalistici per il pessimo lavoro che sta facendo con l'immigrazione... Ripeto, non mi piace la parola fiera, ed è pur vero che sono più italiana qui di quanto non lo sia in Italia; qui ci si aspetta da me che io sia "italiana" e che quindi la mia persona e le mie abitudini corrispondano a tutta una serie di stereotipi. Il mio lavoro consiste nello smontarli, quegli stereotipi e io mi diverto a farlo. Ora finalmente ti rispondo... ho riscoperto di essere molto legata alla mia terra, al mare, alle strade di Napoli, agli odori, ai panorami, ai palazzi. Non sono invece legata a molta della mentalità e delle abitudini di noi italiani, riesco a farne a meno benissimo. Ci sono cose che non riuscivo ad accettare prima di lasciare l'Italia, da quando ero ragazzina, e che ancora non capisco: perché i figli restano a casa fino a trent'anni pur avendo un lavoro, perché le madri italiane continuano ad educare i ragazzi italiani in un certo modo, perché bisogna per forza appartenere ad una cappella ideologica, politica o religiosa che sia. Perché il giardino della villa del signor Tizio è pulitissimo e bellissimo e il marciapiede subito fuori dal suo cancello è disastrato, pieno di erbacce e sporco? Perché la gente guarda le veline in TV? Cose così. Ci sono altrettante cose degli USA che non capisco, ovviamente. Io credo sia importante essere capaci di vivere sempre in una posizione di dislocamento intellettuale, senza omologarsi mai, per essere più aperti e capire meglio l'altro. Lo dobbiamo al genere umano e alla terra tutta.

foto di compleanno

Chi è – e perché – il tuo autore italiano preferito?
Non ho un autore preferito in assoluto. La mia autrice italiana preferita in questo momento è Igiaba Scego; la leggo con molto piacere insieme ad altri autori italiani di origini straniere come Ingy Mubiayi, ad esempio, perché sono gli unici che mi raccontano l'Italia di domani mentre sta arrivando, insieme a quella di oggi. Mentre il governo italiano rimanda i barconi in Libia, loro mi raccontano di coppie miste, di bambini "bicolori", di realtà diverse, a volte tristi, a volte da ridere, ma comunque realtà nuove e mi sento elettrizzata. (a cura di Carlo Silvano)
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segnalo un'altra intervista sul tema dei nuovi emigranti:

giovedì 23 aprile 2009

Il rione di Giorgio Tartaglia


Pollena Trocchia - Con la breve intervista che segue al geom. Raffaele Di Tuoro (1), sono state raccolte alcune informazioni sulla nascita del rione “Tartaglia” ubicato nel comune di Pollena Trocchia. I terreni che oggi accolgono villette e fabbricati anche di diversi piani con decine di appartamenti, erano, un tempo, di proprietà del signor Giorgio Tartaglia. Le prime costruzioni edilizie sono state realizzate negli anni Sessanta del secolo scorso e, a quel tempo, i primi residenti si conoscevano e si frequentavano. Oggi, invece, il rione “Tartaglia”, che si estende su circa dieci ettari, si presenta come un tipico quartiere dormitorio in quanto molti dei suoi abitanti sono dei perfetti anonimi.

Geom. Di Tuoro, lei ha conosciuto di persona il possidente Giorgio Tartaglia?
L’ho conosciuto al “Calasanzio” di Napoli in terza liceo, e da allora siamo rimasti fraterni amici fino a quando è morto.

Il signor Tartaglia coltivava direttamente lui i terreni di sua proprietà?No, non coltivava i terreni ereditati dal padre ma aveva dei coloni. Quando poi si procedette alla vendita dei vari lotti di terreno, garantì ai suoi coloni circa un terzo del denaro ricavato. Personalmente ho dovuto prendere atto che, in quell'operazione, Giorgio Tartaglia si accontentò di quanto gli spettava; soldi che poi investì nell'acquisto di qualche locale, così da garantirsi almeno una rendita. Con i fitti bloccati dei terreni, infatti, a stento percepiva i soldi per pagare le tasse.

In quale area dell'attuale rione era ubicata la casa del proprietario o dei coloni?
La masseria sorgeva nella zona dell’attuale via Apicella, e ospitava due famiglie di coloni dello stesso ceppo.

In sintesi, come è sorto il rione “Tartaglia”?
La lottizzazione fu ideata da un architetto di Ercolano o Torre con l’assistenza dell’avvocato Gaudino, e fu venduto soltanto un lotto ad uno dei coloni con clausole da trasmettere a tutti i futuri acquirenti. In due o tre anni, però, non riuscirono a vendere un altro lotto perché i prezzi praticati a Pollena non erano quelli cui aspirava l’architetto. Dopo due o tre anni l’avv. Gaudino suggerì a Tartaglia il mio nome e lui, ricordandosi che eravamo amici, mi telefonò. Con l’aiuto di un buon mediatore di Pollena cominciarono così le vendite a rate di piccoli lotti ad operai e artigiani del paese che, in parte, hanno costruito direttamente aiutati dal lavoro delle mogli e dei loro ragazzi. Successivamente vi sono state le vendite di suolo a coloro che avevano almeno i soldi per pagare il terreno, e soltanto verso la fine a coloro che avevano anche i soldi per costruire. All’epoca, in qualsiasi lottizzazione, si usava che il notaio fosse sempre lo stesso; anche per il frazionamento e per la progettazione ci si rivolgeva sempre alla stessa persona. Con la lottizzazione “Tartaglia” il notaio era di fiducia dell’acquirente a condizione che, all’atto della stipula, fossimo presenti io oppure l’avv. Gaudino, e ciò affinché venissero imposti i patti stabiliti con il primo atto di vendita. Anche per il tipo di frazionamento il perito poteva essere di fiducia dell’acquirente purché io fossi presente alla misurazione e controllassi l’elaborato per conto del Tartaglia. Tranne i primi, la maggior parte dei tipi di frazionamento sono stati elaborati da altri periti. Anche la maggior parte delle costruzioni sono state progettate e dirette da diversi tecnici. Personalmente, ho curato quelle dei concittadini e quasi tutte gratuitamente, o con il pagamento delle sole spese vive.

Uno dei problemi del rione “Tartaglia” è la mancanza di aree pubbliche a verde attrezzato, piazze e marciapiedi. Lei come si spiega questa lacuna?
Questo era il cruccio di Giorgio Tartaglia: più volte si era offerto di donare il terreno al Comune chiedendo di sapere quale parte doveva riservare a questo genere di opere pubbliche. Gli amministratori comunali, però, volevano che fosse lui a realizzare le opere. Questa richiesta era soltanto una scusa: gli amministratori comunali volevano, come più volte detto esplicitamente, che Tartaglia mi togliesse l’incarico di tutelare i suoi interessi, cosa, però, che non ha mai voluto fare, nonostante io gli dicessi più volte di accontentarli, in quanto avrei potuto ugualmente “guardare le cose da lontano”. Testardamente, e lo ricordo bene, Tartaglia ha sempre detto: “non vendo più un metro quadrato di terreno ma essi non possono entrare nelle mie cose”. (a cura di Carlo Silvano)
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(1) Raffaele Di Tuoro è nato a Pollena Trocchia nel 1928, e dal 1998 redige, stampa e diffonde “Il Cittadino”, periodico di informazione indirizzato e aperto ai suoi concittadini di Pollena Trocchia.

martedì 21 aprile 2009

1958 e 1964: disastri aerei a Pollena Trocchia

“Bonn, 16 febbraio 1958 – Il comando delle Forze aeree degli Stati Uniti in Europa ha annunciato stamane da Wiesbaden che un apparecchio "C-47 Dakota", avente a bordo sette uomini d’equipaggio e nove passeggeri, in volo tra Napoli e Atene, risulta disperso e che sono state intraprese ricerche”.

Con questa nota del 17 febbraio del 1958, il giornale “Il Mattino” di Napoli informava i propri lettori della scomparsa di un velivolo americano che, dopo aver effettuato il rifornimento di carburante sulla pista militare dell’aeroporto di Capodichino, era ripartito alle ore 22.22 diretto prima ad Atene per poi proseguire per Istanbul.
Dopo un primo contatto radiofonico con la torre di controllo, il pilota dell’aereo non forniva più alcuna notizia. Sulle prime non si ebbe particolare preoccupazione da parte dei controllori di volo; in seguito, però, col passare delle ore e del completo silenzio radio, si temette il peggio: alle prime luci dell’alba furono avviate le ricerche, subito ostacolate dalle pessime condizioni meteorologiche.
Dato che l’aereo statunitense era tenuto a seguire una rotta ben precisa, e cioè costeggiare la Campania e la Calabria per poi dirigersi verso Atene, i ricognitori partiti da Tripoli, Malta, Catania, Atene e dalla portaerei “Saratoga” che in quei giorni sostava a Napoli, si concentrarono inutilmente nelle zone che l’aereo doveva attraversare. Le ricerche continuarono per ben quattro giorni e nonostante le avverse condizioni meteorologiche. L’aereo, però, non era caduto in mare ma si era schiantato sul monte Somma.

Su “Il Mattino” del successivo 20 febbraio, infatti, si legge che si deve a Raffaele Mercogliano, una guardia municipale del Comune di Pollena Trocchia, il primo avvistamento dei rottami dell’aereo. Dal giornale leggiamo che Mercogliano “stava discutendo ieri mattina in una zona alta di Pollena con alcuni compaesani sulle condizioni del tempo. Ha levato gli occhi verso la montagna, ed in quel preciso istante un raggio di sole ha fatto luccicare qualcosa sul costone nord-ovest del Cognoli. A prima vista il Mercogliano, pur non dando eccessivo peso alla cosa, riteneva ugualmente doveroso informare il Sindaco di Pollena Trocchia”. Ed il Sindaco, a sua volta, provvedeva ad informare telefonicamente i carabinieri della caserma del vicino comune di Sant’Anastasia.

Da “Il Mattino” si apprende che – verso le ore 12.20 – un ricognitore americano "B-26" avvistava i rottami del "Dakota" scomparso, e le squadre di soccorso giunsero nel pomeriggio sul punto localizzato: un boschetto di acacie a 1065 metri di altezza (1). Alle ore 16.09 avviene il ritrovamento, che il cronista così descrive: “Uno spettacolo orrendo si presentava allora agli occhi di quanti si sono avvicinati per primi al relitto. Dieci macchie nere sulla neve: dieci corpi orrendamente mutilati e semicarbonizzati. Cinque e forse sei, sotto l’unica ala rimasta apparentemente integra, ammucchiati come in un disperato abbraccio, tre all’altezza della sconquassata carlinga ed il decimo bocconi a qualche metro dall’aereo, col capo ricoperto ancora da un casco bruciacchiato semiaffondato nella nuda terra. L’orologio da polso di una delle vittime era fermo alle 22.30. Forse un guasto all’altimetro deve aver ingannato il pilota che avrebbe ritenuto di aver già aggirato il Vesuvio, di qui l’urto”.

Secondo un giornalista de “Il Mattino” i sedici americani sarebbero morti tutti sul colpo; il giornale “Roma”, invece, offre un’altra versione riportando le affermazioni dell’allora Sindaco di Pollena Trocchia, avv. Antonio Di Tuoro, il quale, insieme al vigile Mercogliano, ad un assessore e ad un consigliere comunale, fu tra i primi ad arrivare sul luogo della sciagura. “L’aereo – disse Di Tuoro – giaceva reclino su una montagnola con le ali staccate, una adagiata quasi al fianco della carlinga, l’altra scagliata a circa settanta metri di distanza. La parte anteriore della fusoliera era letteralmente esplosa. Uno dei cadaveri aveva le mani strette intorno alle tempie. Si comprimeva ancora le orecchie come per non udire più… in una delle tasche della sua lacera giacca abbiamo trovato un portafoglio, in esso era contenuto un documento militare che stabiliva il suo itinerario: Belgio, Germania, Italia, Grecia, Turchia, Spagna e Gran Bretagna. E’ venuto invece a morire quassù. Se è rimasto in vita, come penso, la sua deve essere stata un’agonia terribile. E pensare che se non vi fosse stata tanta foschia in questi ultimi giorni i rottami dell’aereo sarebbero stati avvistati immediatamente. Tutto ha congiurato perché i soccorsi non siano arrivati in tempo”.

Oltre all’incidente del 16 febbraio 1958, il monte Somma è stato teatro di un’altra sciagura aerea: la notte di Pasqua del 1964 un altro aereo si schiantò sul versante che rientra nel territorio del Comune di Pollena Trocchia (2). Anche in quell’occasione si registrò un elevato numero di vittime e, purtroppo, si verificarono anche episodi di sciacallaggio. Tre mesi dopo la sciagura del 1964 una persona di Pollena – che ho avuto modo di ascoltare – ritrovò sul posto del disastro altri resti umani e, in quel luogo, innalzò una croce in legno, la quale, però, rimase in piedi solo per pochi anni. (a cura di Carlo Silvano)

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(1) Molto probabilmente è da verificare il luogo dove è avvenuta la sciagura, in quanto sembra difficile che possa essersi verificato a 1065 metri di altezza, così come riportato dal giornale. Al riguardo si rammenta che il monte Somma ha un'altezza di 1.132 metri nella Punta Nasone.

(2) L'aereo si schiantò su un castagneto di proprietà della parrocchia San Giacomo di Pollena. Nell'autunno del 1988, in compagnia di diverse persone, tra cui il parroco don Giuseppe Cozzolino, ebbi modo di visitare il luogo della sciagura: c'era ancora qualche rottame dell'aereo.

domenica 19 aprile 2009

La cappella di San Martino, extra villam


Pollena Trocchia. Una delle cappelle più antiche di Pollena doveva essere quella di San Martino sita molto probabilmente nei pressi dell'odierna località Carcavone, sul monte Somma, e scomparsa alla fine del XVIII secolo in seguito ad una terribile alluvione (quasi certamente quella del 1794).




Ancora oggi questa località vive in un profondo stato di degrado idrogeologico dovuto all'attività di due cave che per anni hanno estratto sabbia per uso edile. Le prime notizie che abbiamo della cappella di San Martino risalgono alla visita pastorale dell'arcivescovo di Napoli, il cardinale Carafa, del mese di agosto 1542: <<Et visitando capellam Sancti Martini, extra dictam villam, repertum fuit quod est rettor abbas Fabritius Campanilis, qui postea comparuit et produxit litteras provisionis sibi facte per b.m. Donatum, episcopum Hysclanum et vicarium Neapolitanum, per quem provisum fuit de dicta capellania vacante tunc per <...> Honorati Ricca. Constat per easdem litteras subscriptas manu condam notarii Constantini Ferrarii sub anno Domini 1527, die V° mensis aprilis>>.

Della cappella di San Martino parla anche lo storico locale Ambrogino Caracciolo riportando la testimonianza di alcuni contadini, i quali asserrivano che un tempo la cappella era un convento di frati. Il Caracciolo aggiunge che: <<...è ferma convinzione dei singoli contadini che ivi debb'esser nascosta una statua di S. Martino a cavallo tutta d'oro massiccio. Tale opinione però che si basa soltanto su una leggenda, credo non debba avere alcun fondamento>>.

Nel terzo libro dei matrimoni dell'Archivio Parrocchiale della chiesa di San Giacomo Apostolo di Pollena si accenna alla cappella di San Martino allo Stucchio. Tale cappella non deve essere in alcun modo confusa con quella del Carcavone dovendo trattarsi della cappella del Carmine retta dai padri Certosini; evidentemente era intitolata anche a San Martino dovendo avere come riferimento appunto la certosa sita nei pressi di Castel Sant'Elmo a Napoli. Molto probabilmente la cappella di San Martino al Carcavone fu fondata dai padri Certosini e non è da escludere una loro stabile presenza dando così fede alla testimonianza dei contadini citati dal Caracciolo. Se così fosse bisognerebbe concludere che il convento dei Certosini sul colle di san Martino a Napoli aveva in passato non poche proprietà nel territorio di Pollena. Tuttavia una eventuale presenza monastica a san Martino era certamente anteriore al 1700: nei primi anni del XVIII secolo infatti la cappella era curata dal sacerdote Francesco Di Leone, originario della Calabria (quasi sicuramente di Crotone) e residente nel casale di San Sebastiano al Vesuvio presso la casa della signora N. Felice Frezzi.

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Tratto dal volume "La comunità di Pollena dal 1760 al 1819 - Note di storia sociale e religiosa", di Carlo Silvano, stampa OGM 1998, pp. 120.

Villa Santangelo: un gioiello perso per sempre


Pollena Trocchia. E' andata persa per sempre, nonostante Ambrogino Caracciolo scrisse che intorno ad essa si fosse svolta la storia di Pollena di questi ultimi secoli. Stiamo parlando di villa Santangelo, edificata nel borgo cittadino nella prima metà del Seicento e distrutta alcuni decenni fa per costruire uno dei tre edifici dell'Istituto Suore degli Angeli.

Le principali notizie sulla storia di questa villa sono raccolte in un volume di Ambrogino Caracciolo, intitolato "Sull'origine di Pollena Trocchia e sulle disperse acque del Vesuvio e sulla possibilità diun sfruttamento del Monte Somma a scopo turistico". In questo libro (pubblicato nel 1932 e ristampato nel 1991 dalla Pro loco "G. Donizetti"), l'autore sostiene che la villa fu fatta costruire dalla famiglia Capece Scondito, ed in seguito, nel 1736, fu acquistata dal marchese Paolo Francone di Salcito. Con i nuovi proprietari la villa si arricchì di altre strutture e locali progettati dall'architetto Michele Massa. Fu così edificato un nuovo appartamento con una grande galleria, e realizzate delle sale per ospitare l'archivio e la biblioteca di famiglia. Il Caracciolo riferisce che per la costruzione di questi locali e per l'ampliamento della scuderia, furono necessari l'acquisto e la demolizione di un gruppo di case e di un'infinità di casupole. Quest'ultima nota è importante per immaginare quale poteva essere all'epoca la struttura urbanistica del borgo di Pollena. Un altro tesoro di questa villa era il suo parco che, con ogni probabilità, doveva essere molto più esteso di quello attuale. Il Caracciolo sostiene che la famiglia Francone ospitò a Pollena numerosi aristocratici e anche il Vescovo di Sant'Agata dei Goti, S. Alfonso dei Liguori. In seguito la villa fu acquisita dalla famiglia di Nicola Santangelo e, tra l'altro, il Caracciolo scrive: "Durante il lungo governo del Santangelo i più illustri personaggi del regno furono di passaggio per Pollena, per rendere atto di ossequio al potente ministro, e lo stesso re Ferdinando con tutti i principi della sua famiglia vi venne un giorno da Portici a schiena d'asino per un'improvvisata che parve piuttosto dovuta ad un intrigo di corte. Infine nel 1845, quando Napoli ospitò per un solenne congresso i principali scienziati d'Europa, Nicola Santangelo li convocò tutti a Pollena ad un sontuoso banchetto di cento coperti". In questa villa, inoltre, furono raccolte una ricca collezione di stampe e una quadreria provenienti dal palazzo dei Santangelo a Napoli che subì delle lesioni provocate dalle acque del Serino.

Se la perdita di villa Santangelo rappresenta un gravissimo attentato alla storia e alla cultura locale non bisogna credere però che tutto sia andato perduto. Occorrerebbe rivalutare il parco e raccogliere ulteriori documenti e notizie storiche sulla villa, in modo da divulgarle anche mediante una pubblicazione ed una mostra storica. Solo con la conoscenza del proprio passato, infatti, i cittadini e gli amministratori pubblici possono apprezzare il proprio paese ed impegnarsi per migliorarne la qualità della vita.

Riguardo a villa Santangelo qui di seguito riporto un brano tratto da "La bambina della masseria Rutiglia":

‹‹Intorno al 1736 – raccontò la maestra durante una lezione – la villa apparteneva al marchese Paolo Francone e, in seguito, fu di proprietà del ministro Nicola Santangelo che spesso ospitava personalità e anche scienziati provenienti da lontane nazioni››. 
Carmelina ascoltava incuriosita la maestra restando seduta e composta nel suo banco e guardando oltre la finestra dell’aula, verso la residenza nobiliare per intravedere qualche eventuale persona che potesse rassomigliare a un re o ad un ministro, e guardava anche oltre il tetto della villa, dove le rigogliose e verdeggianti cime degli alberi indicavano l’esistenza di un boschetto come luogo ideale per passeggiare e conversare accanto a gentiluomini e dame. Un boschetto che lei, dal suo banco, poteva solo immaginare, ma che un giorno per i suoi figli diventerà un luogo di scoperta per la presenza di misteriose grotte buie, vasche d’acqua zampillante limpida e fresca con guizzanti pesciolini rossi, arcani sentieri ricoperti di un muschio verde smeraldo ed eleganti statue bianche di marmo pregiato, così da allietare la loro infanzia popolandola di mitici eroi, fantastiche avventure e sereni ricordi.

Per informazioni sul libro cliccare "La bambina della masseria Rutiglia" di Carlo Silvano 




La chiesa di San Giacomo di Pollena: un patrimonio che appartiene a tutti

L'edificazione dell'attuale chiesa dedicata a San Giacomo Apostolo di Pollena si deve ad alcuni sacerdoti che raccolsero il denaro occorrente e ne seguirono i lavori. E se in genere ogni opera consacra alla memoria dei posteri il nome del proprio architetto o di chi l'ha commissionata, una peculiarità della chiesa di San Giacomo è che grazie ad alcuni documenti conservati presso l'Archivio Storico Diocesano di Napoli, conosciamo anche i nomi di diversi operai che con le proprie mani fabbricarono un tempio che da alcuni secoli rappresenta il simbolo dell'identità religiosa e sociale della comunità locale.

Dagli Atti della visita pastorale compiuta dal cardinale Luigi Ruffo Scilla nel 1818, si apprende che fu don Andrea Ilardo (parroco dal 1760 al 1775) a raccogliere le prime offerte, mentre a far iniziare i lavori per la costruzione della chiesa fu don Filippo Coppola (parroco dal 1775 al 1785). Nel corso dei lavori tra coloro che prestarono la propria opera si menzionano il maestro "indoratore" Lorenzo D'Ambrosio, e i maestri "stuccatori" Antonio e Giuseppe Vignati. Per la realizzazione dell'altare maggiore fu chiamato lo scultore Domenico Tucci, il quale realizzò - su disegno dell'ingegner Giovanni Piscicelli - pure le due acquasantiere di bardiglio collocate ai due lati dell'ingresso alla Chiesa. Dopo la benedizione della chiesa, avvenuta nell'ottobre del 1787 con l'allora parroco Francesco Rossi, i lavori continuarono almeno fino al 1794.

Da uno scritto del Rossi che doveva rendere conto del proprio operato e del denaro speso alla curia arcivescovile di Napoli, sappiamo che intorno al 1790 un operaio del luogo, di nome Antonio Ascione, lavorava "nel fare pietra, e cavare lapillo servibile per le fabbriche della Chiesa". Il materiale veniva estratto da una cava sita in una località di Pollena denominata "de Bonati". Da questa cava, poi, il materiale veniva trasportato alla chiesa in costruzione da un carrettiere del paese di nome Vincenzo Busiello. Un altro operaio, Giuseppe De Luca, tagliava e preparava le pietre "dolci".

I lavori per terminare la chiesa dovettero continuare almeno fino al 1794: in un decreto arcivescovile del 19 ottobre del 1793 si legge infatti che ad un abitante del luogo, Vito Antonio Sannino, fu prescritto per penitenza un lavoro per cinque mesi presso il cantiere della chiesa di San Giacomo. Al Sannino, si legge nel decreto, fu chiesta questa penitenza perché aveva sposato una sua parente di primo grado.
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Altre informazioni e notizie sulla chiesa di san Giacomo Apostolo di Pollena si possono reperire dal volume "La comunità di Pollena dal 1760 al 1819 - Note di storia sociale e religiosa", di Carlo Silvano, stampa OGM 1998, pp. 120.