venerdì 31 luglio 2020

DON EMILIO MELLONE, DIO RENDE LIETA LA NOSTRA GIOVINEZZA

POLLENA TROCCHIA – A volte basta una piccola attenzione ricevuta da bambini che per tutta la vita si porta dentro all’animo una sana immagine della persona che ci ha regalati quell’emozione. E questo vale anche per me che ho un personale ed affettuoso ricordo di don Luigi Storino (1918 – 1975), il parroco della mia infanzia. Nell’intervista che segue ho chiesto a don Emilio Mellone di raccontarmi i suoi personali ricordi riguardo a don Luigi: quest’intervista, allora, è per me preziosa anche perché don Emilio è stato il mio docente di religione alle scuole medie e spesso, come chierichetto, “servivo” la Messa da lui celebrata non solo nella chiesa di San Giacomo Apostolo, ma lo “seguivo” anche quando in certe occasioni celebrava a Massa di Somma e a Ponticelli. 
Don Luigi Storino, come ora racconterà don Emilio, è stato un sacerdote con una buona carica carismatica e dal 1954 al 1975 ha guidato la comunità parrocchiale di Pollena seminando il bene nell’animo di tante persone. Lo stesso don Emilio si è “accostato all’altare di Dio” grazie all’esempio di don Luigi.

Don Emilio, qual è il primo ricordo che hai di don Luigi Storino?
Risale a quando avevo circa 5 anni e mezzo e cominciai ad andare in chiesa per "servire la messa", così come allora si diceva.
(1969: don Luigi Storino con i genitori di don Emilio in occasione della benedizione della salumeria di famiglia)

Quando tu eri bambino la messa si celebrava in latino?
Sì, e il parroco don Luigi Storino per consentirci di partecipare attivamente alla celebrazione doveva insegnarci a esprimere correttamente frasi e preghiere in questa lingua: accoglieva i chierichetti in sacrestia, ci faceva sedere su una panca e ci insegnava a memoria le risposte in latino. Ricordo che non capivo niente di quello che dicevo in latino, però imparavo tutto a memoria e rispondevo sempre bene alle domande che il celebrante rivolgeva al popolo che partecipava alla Messa. All'inizio della messa il sacerdote affermava: “Introibo ad altare Dei” (“Salirò all’altare di Dio”) e noi rispondevamo “ad Deum qui laetificat juventutem meam” (“A Dio che rende lieta la mia giovinezza”). 
Un altro ricordo che ho di don Luigi è quando di mattina ci veniva a chiamare in aula dalle suore Compassioniste nel tempo precedente la Pasqua per accompagnarlo a benedire le case: eravamo in tre o quattro e ognuno di noi aveva un compito, come portare il fiasco con l'acqua benedetta da versare nel secchiello, il secchiello stesso e un paniere dove, a volte, le persone donavano qualche uovo, mentre qualcun’altra deponeva un’offerta nell’apposita cassetta portata sempre da un chierichetto. Ricordo ancora con emozione e ho viva dinanzi agli occhi l’immagine della prima volta che lo vidi venire dalle Suore Compassioniste…
(Ricordo della Prima Comunione e della Cresima)

Puoi raccontarla?
Don Luigi aveva comprato un’auto, e precisamente una “topolino” color amaranto, e durante la ricreazione noi scolari, appena ci accorgemmo che nello stradone dell’Istituto delle Suore Compassioniste aveva fatto la sua comparsa un’auto, pensammo che si trattasse di un medico intenzionato a visitarci e allora, per la paura, scappammo via. Invece, per fortuna, era solo il nostro parroco che veniva ad insegnare a noi i bambini il catechismo. Sì, don Luigi andava anche nelle scuole a fare catechismo e poi, a fine anno, noi scolari facevamo anche un apposito esame e ricevevamo dei piccoli premi, come croci e statuette della Madonna.
(13 luglio 1977: ordinazione sacerdotale di don Emilio Mellone)

E’ stato anche il tuo insegnante di religione?
Sì, è stato mio docente in prima media a Pollena perché poi, in seconda media, entrai in Seminario. Ricordo che don Luigi era molto bravo a spiegare e ancora oggi ricordo quando ci raccontò la storia di Giuseppe venduto dai fratelli: io e i miei compagni di classe rimanevamo veramente incantati per il suo modo di spiegare e anche perché ci piacevano le storie che sceglieva di raccontarci.
(2 aprile 1978: Prima Messa solenne di don Emilio; dietro di lui si vede don Mimmo Noviello, parroco di Pollena dal 1976 al 1988)

Che “peso” ha avuto don Luigi nella tua scelta vocazionale?
Ha avuto un peso enorme, determinante! Tutte le mattine mi alzavo presto per andare “a servire la messa”: guardando con quale fervore don Luigi celebrava la Messa, incominciai ad avere nella mente un solo e martellante pensiero e cioè che anch’io da grande volevo diventare sacerdote e celebrare Messa! Quando poi si trattò di scegliere il padrino di cresima, pensai subito ad Antonio Allocca, un seminarista di Pollena che già aveva ricevuto la vestizione e quindi indossava la talare. 
(a dx don Emilio con don Michele Sannino (parroco di San Gennariello e prematuramente venuto a mancare) e sullo sfondo si vede la sede della Facoltà Teologica dell'Italia Meridionale in viale Colli Aminei a Napoli)

Don Emilio, quindi sei entrato in Seminario quando stavi in seconda media? 
In verità volevo già entrare prima e cioè subito dopo la quinta elementare, però fu lo stesso don Luigi che propose a mia madre Giuseppina di farmi entrare dopo le medie e ciò perché voleva accertarsi che io fossi veramente animato da una sana vocazione. Io però insistevo per essere subito ammesso al Seminario di Capodimonte e riuscii ad averla vinta: entrai in Seminario in seconda media e don Luigi fu molto contento di questa mia scelta. 
(1972: don Emilio con un gruppo di amici e sacerdoti pellegrini a Lourdes)

Che ricordi hai del vescovo Luigi Rinaldi e della sua amicizia con don Luigi Storino?
Il vescovo Luigi Rinaldi (1901 – 1977) era molto legato alla nostra comunità parrocchiale: ancora oggi si può notare al corso Umberto I, subito dopo il vecchio municipio e cioè sulla mano sinistra andando verso Trocchia, una villetta con relativo giardino alla cui entrata c’era l’iscrizione “villa Rinaldi”.  Nel mese di giugno di ogni anno mons. Luigi Rinaldi si trasferiva, probabilmente per motivi di riposo, in un appartamento dalle parti del Vomero e il parroco Storino, puntualmente, andava a fargli visita anche per gli auguri dell’onomastico, portandogli dei doni tra cui le nostre famose “cresommole”. Capitava che mi portava con sé, nella sua famosa “Seicento” celestina che ebbe dopo la Topolino. In me è ancora vivo il ricordo del volto smagrito e con la frangettina che dallo zucchetto fuoriusciva sulla fronte. Don Storino e il vescovo Rinaldi si intrattenevano a discorrere un po’ mentre io mangiavo dei biscottini e caramelle offerti dal Vescovo. Sinceramente non ho memoria del contenuto dei loro discorsi, ma ricordo perfettamente come don Storino si esprimeva in un italiano perfetto e pieno di deferenza gli dava il “voi”, mentre il vescovo Rinaldi con tono bonario e paterno parlava solo napoletano.
(al centro della foto il prof. sac. Settimio Cipriani, Preside della Facoltà Teologica di Napoli con un gruppo di studenti tra cui don Emilio)

Quali erano, a tuo avviso, i pregi di don Luigi?
Ne aveva tanti di pregi don Luigi! Era sicuramente una persona con una forte spiritualità: osservavo il suo volto quando si raccoglieva in preghiera e celebrava la messa e percepivo che lui era un autentico uomo di Dio. Oggi certe espressioni e vocaboli potranno sembrare antiquati, ma col senno del poi comprendi l’importanza che hanno. Alcuni suoi modi di fare – come quello di tirare le orecchie a certi ragazzini che andavano a confessarsi – ora giustamente non sono più accettati e tollerati, ma in questi suoi gesti non c’era cattiveria, ma solo la volontà di indirizzare sulla giusta strada chi rischiava di deviare. Don Luigi, come parroco, credeva fortemente nella sua missione e aveva promosso tante iniziative per alimentare la fede delle persone a lui affidate. Ricordo, in particolare, la missione dei Padri Passionisti in parrocchia che lui volle per rilanciare la venerazione alla Madonna e l’adorazione a Gesù sacramentato.
(scala del sagrato della chiesa di San Giacomo a Pollena: don Emilio, a sx, col card. Corrado Ursi e don Luigi Storino)

So che don Luigi curava, in particolare, i rapporti personali…
Non dimenticava mai certe date e considerava importante festeggiare gli onomastici ed i compleanni delle persone che conosceva. Spesso mandava noi chierichetti a portare un piccolo dono per le persone festeggiate che si “sentivano” importanti per l’attenzione ricevuta dal proprio parroco e lui ci teneva moltissimo a queste piccole dimostrazioni di affetto, a rendere lieta la nostra vita proprio come Dio promette a ognuno di noi di rendere lieta la nostra giovinezza. (a cura di Carlo Silvano)

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Il presente blog è curato da Carlo Silvano (Cercola 1966), autore di diversi libri:

Giunto alla quarta edizione cartacea, il volume "Liberi reclusi. Storie di minori detenuti" raccoglie le interviste di Carlo Silvano a minori e ad operatori di un carcere minorile.
Per ulteriori informazioni cliccare su: Liberi reclusi. Storie di minori detenuti  








"La bambina della masseria Rutiglia" è un romanzo breve ambientato tra Pollena e Cercola durante la Seconda guerra mondiale.
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"Una ragazza da amare", romanzo breve ambientato in un liceo classico a Napoli negli anni Ottanta.
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"La comunità di Pollena dal 1760 al 1819" riguarda l'edificazione dell'attuale chiesa di San Giacomo Apostolo il Maggiore in piazza Nicola Amodio a Pollena. La ricerca si basa su documenti inediti conservanti presso l'Archivio Storico diocesano di Napoli. 
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mercoledì 29 luglio 2020

Pietro Barca, La fabbrica dei lucchetti di Pollena Trocchia

POLLENA TROCCHIA – Non sono poche le famiglie che si sono potute formare grazie al lavoro offerto da quella che era la fabbrica dei lucchetti ubicata nel rione “Tartaglia” di Pollena: da ragazzino ho avuto modo di “conoscere” la ditta ALA perché spesso andavo a trovare Piero, compagno di banco dalla quarta elementare alla seconda superiore, nell’appartamento che la sua famiglia occupava all’interno dello stabilimento. Purtroppo, a fine anni Novanta, i proprietari della ditta ALA si trovarono in difficoltà e non riuscirono più a tenerla attiva, ed in occasione di un incontro tra dipendenti, proprietari e amministratori municipali svoltosi nell’aula consiliare del Comune di Pollena Trocchia ebbi modo, in qualità di corrispondente del settimanale “Metropolis”, di intervistare il signor Amedeo Letticini, comproprietario dell’azienda, che mi accennò le difficoltà dell’azienda a restare sul mercato a causa della spietata concorrenza delle aziende asiatiche. In seguito, la fabbrica chiuse e gli operai furono licenziati e dovettero cercare nuove alternative lavorative. Dopo un periodo di abbandono il fabbricato è stato ristrutturato e ha accolto un supermercato.
Nell’intervista che segue all’amico Pietro Barca (classe 1967) – che oggi lavora come dipendente del Ministero di Grazia e Giustizia – ho voluto rievocare le vicende della fabbrica ALA che fanno parte della storia di Pollena Trocchia e fanno parte anche della mia adolescenza.
(Pietro Barca)
Piero, a che età sei arrivato a Pollena Trocchia?
Ricordo che arrivai verso i 7 anni, intorno al 1975. Pollena, allora, era una cittadina dove si potevano vivere i primi anni di vita in modo più tranquillo rispetto alla città di Frattamaggiore da dove provenivo. Non ho delle vere e proprie radici in una particolare zona in quanto sono nato a Caserta, ho vissuto inizialmente ad Avella, provincia di Avellino, dove ho frequentato l'asilo, e qualche anno a Frattamaggiore, paese di mia madre e dei miei zii. Comunque, il “vero inizio di vita” è stato a Pollena Trocchia, dalle Suore degli Angeli, dove ho conosciuto te, amico mio, ed è cominciata la mia vita scolastica. Le elementari e le medie, hanno contribuito a formare la mia persona e a farmi crescere in un ambiente, a mio parere, per niente ostile. Nel corso della vita scolastica non sono mancate delle ragazzate che è norma comunque di quella età. Fortunatamente, la tua amicizia mi ha indirizzato al dialogo, alla partecipazione, alla comprensione fino alle superiori. Eravamo ragazzi ed avere un amico che ti capisce, ti ascolta e ti segue è un tesoro non facile da trovare. Pollena Trocchia per quanto fosse tranquilla non era esente da casi di droga e un nostro caro amico, come ricorderai, morì di overdose, e poi, anche allora, si registravano certi reati, come, ad esempio, i furti nelle abitazioni ed altro. Quindi si rischiava di avere amicizie alquanto dannose per la crescita con il rischio di trovarsi in brutti giri dove non potevi più tornare indietro. Per fortuna non è stato il caso nostro e di tanti ragazzi pollenesi che hanno trovato la giusta strada nella vita.

Dove abitavi e qual era il lavoro di tuo padre?
Abitavo in un appartamento in un'azienda che produceva lucchetti, la ditta “ALA”.  Una fabbrica che oltretutto ha dato anche lavoro a mio padre. Lui era una persona di fiducia dell'azienda in quanto ex carabiniere. Oltretutto si occupava del magazzino per la spedizione dei lucchetti in Italia e nel mondo. Era inizialmente fiancheggiato dal signor Giacomo, che lo aiutò a capire il sistema come funzionasse, poi andò egregiamente da solo vista la sua velocità nell'apprendimento. Mio padre allora aveva solo la licenza elementare. Si iscrisse alla scuola serale. Le lezioni si svolgevano presso la scuola media “Raffaele Viviani”. Era emozionato dallo studio, le sue materie preferite erano la storia e il diritto civile. Avendo fatto il carabiniere rileggere la Costituzione era per lui un ritorno al passato. Non riuscirà ad andare oltre la licenza media, ma il suo impegno lo porterà a fare, in pensione, il vicesindaco nel suo paese natale, Gratteri, in provincia di Palermo.  

Cosa ricordi in particolare della fabbrica ALA?
Ho tanti ricordi di quella ditta. Sin dal primo istante ho considerato, non solo l'appartamento in cui vivevo, ma anche ciò che mi circondava, tutto mio. La vastità di quell'ambiente, per me che ero piccolo, era un mondo da scoprire. La ditta cresceva e io con lei. Gli ambienti che venivano aggiunti non erano un mistero per me. Uffici nuovi e reparti dell'officina in via di espansione mi appartenevano. Non ero il proprietario ma fu proprio Antonio Letticino, il fondatore dell’azienda, a far sì che in famiglia amassimo quell'azienda. L'unica pecca era che più si allargava l'azienda più si restringeva il bel giardino che era situato sul retro.

(l'ex fabbrica ALA vista da via Apicella)


Cosa ti ricordi del giardino?
Era un piccolo paradiso! Ero sempre lì, dopo lo studio, a giocare con i tanti cani che abbiamo posseduto. C'era anche una falciatrice che utilizzavo molte volte per tagliare l'erba e sempre con tanta voglia di fare e di sfogare quell’energia che, ahimè, adesso vorrei tanto avere. 

(l'ex fabbrica ALA vista da via Sant'Antonio)


Ricordo che c’era anche un grande terrazzo…
Sì, in cima all'azienda: era stupendo! L'altezza e la posizione davano per un lato sul meraviglioso panorama del golfo di Napoli e per un altro lato si poteva ammirare il monte Somma con la cima del Vesuvio. Ricordo che ignorando il pericolo mi sporgevo tenendomi al bordo della ringhiera e senza stancarmi osservavo tutto ciò che c’era attorno perché era stupendo.
(l'ingresso principale dell'ex fabbrica ALA)

Qual è il tuo ricordo personale del signor Antonio Letticino, fondatore della fabbrica ALA?
Ho un bellissimo ricordo di don Antonio, così lo chiamavamo, anche perché il don, espressione tipicamente napoletana, è un titolo per le persone che meritano rispetto. La prima volta che lo vedemmo fu quando andai con mia madre a chiedere il lavoro per mio padre. Erroneamente entrammo dal cancello del giardino e non da quello principale e lui era lì tra le sue bellissime rose che curava con molta dedizione. Giustamente, per quello che faceva, non aveva giacca e cravatta, quindi mia madre lo scambiò per un addetto al giardino chiedendogli di poter parlare con il proprietario della ditta, perché aveva letto l'annuncio sul giornale riguardante l'assunzione di una persona di fiducia, qualità che mio padre possedeva pienamente. Lui fu gentilissimo ad accompagnarci fino agli uffici e a presentarci al ragioniere e fu proprio il ragioniere a dirci chi fosse il proprietario. Rimanemmo di stucco. L'umiltà di Don Antonio era insuperabile.  Nel tempo lo conobbi meglio e capii che uomini come lui se ne conoscono pochi nella vita. Ogni volta che rientravo da scuola e lo incontravo, mi salutava, come se fossi stato uno di famiglia, chiedendomi come fosse andata la giornata. Nel periodo in cui frequentavo all'Università la facoltà di Ingegneria, purtroppo mai conclusa, mi chiamava ingegnere ed io sorridevo.  Quando morì ci rimasi molto male. Era sparita una figura che rappresentava la mia infanzia, la mia crescita e lasciò dentro di me un grande vuoto.
(l'ex fabbrica ALA durante i recenti lavori di ristrutturazione)

Piero, anche tu hai avuto modo di lavorare in fabbrica. Cosa ricordi, in particolare, di quell'esperienza e dei compagni di lavoro?
Nel lontano maggio del 1988 fino ad aprile 1989 venni impiegato nell'azienda “ALA” in base all'allora art. 23 che permetteva di assumere giovani ricevendo agevolazioni fiscali. Fummo un bel po' di noi, giovani alla prima esperienza lavorativa, ma solo io ero quello che conosceva ogni ambiente dell'azienda e il più conosciuto dagli operai. Ognuno di noi era alla sua postazione di lavoro che fortunatamente, per prassi, doveva cambiare giorno per giorno. Lì ho scoperto di non essere amante dei lavori monotoni. Essere 8 ore su una macchina e ripetere sempre le stesse azioni era terribilmente noioso. Preferivo i lavori costruttivi. Preferivo leggere i progetti disegnati dall'ingegnere per poi arrivare al prodotto finito. Questo percorso competeva al capo officina che seguivo appena potevo. Gli operai esperti che ci circondavano, inizialmente, scherzavano con noi per la nostra inesperienza, ma successivamente, accorgendosi che eravamo una risorsa in più per il gruppo, ci hanno integrato e insegnato a risolvere i problemi sulle macchine o di vario genere. Comunque, fu un anno di esperienza di vita. Fare l'operaio è un lavoro duro se fatto seriamente e per tutta la vita. Un lavoro dove l'esperienza conta. Nessuno di noi fu confermato nell'azienda e tutti e quattro prendemmo strade diverse, ma contribuì a darci quello stimolo che, credo, ad oggi, abbia aiutato la nostra consapevolezza nel lavoro.

Oggi, ripensando alla ditta ALA, qual è l'aspetto che più ti lascia l'amaro in bocca?
Quando ho saputo che la ditta stava licenziando per motivi commerciali. Il mercato estero aveva invaso l'economia italiana portando con sé prodotti di scarso livello ma molto competitivi per il prezzo. Tra questi prodotti c'erano anche i lucchetti e ferramenta varia. Il lucchetto artigianale italiano, quindi quello fabbricato nella ditta “ALA”, era un prodotto affidabile, ma molto più costoso. Di conseguenza iniziò una lenta decadenza. Probabilmente ci saranno stati tanti altri motivi del declino della ditta, che io non conosco, ma credo che sia iniziata con il confronto con i prodotti esteri. Conoscendo i proprietari penso che siano arrivati alle strette  per arrivare alla chiusura. Mi auguro che abbiano aperto un'altra attività in altre regioni, ma non ne sono certo. Le mie considerazioni giungono alla conclusione che sono tutti stati vittima del commercio aggressivo che ha invaso l'Italia e lo Stato non ha potuto, in quel momento, sopperire alle varie richieste di aiuto delle migliaia di aziende in difficoltà. Non meritavano gli operai di essere licenziati, dopo tanti anni di attività, ma non voglio entrare in merito della questione perché sono state lotte molto lunghe tra la direzione e le maestranze. Altro dissapore è stato il vedere il fabbricato deteriorarsi: ogni volta che passavo di li, per rivedere, da fuori, l'appartamento dove avevo vissuto con la mia famiglia, notavo dei segni di decadimento. La trasformazione dell'edificio in un supermercato mi ha rallegrato per il solo fatto che hanno dovuto ristrutturare la ex ditta “ALA” lasciandola alquanto simile alla precedente.
(a cura di Carlo Silvano)
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Le foto presente in questo articolo intervista sono di Pietro Barca.
Carlo Silvano è il curatore di questo blog ed è autore di diversi libri. Per ulteriori informazioni cliccare su Libri di Carlo Silvano



sabato 25 luglio 2020

Pollena Trocchia, la biblioteca civica "Don Lorenzo Milani"

Pollena Trocchia - Terminata la Messa delle ore 9,30 frotte di bambini e ragazzi si avviavano verso la piccola biblioteca: ognuno aveva tra le mani un libro da consegnare e ognuno aspirava a trovare tra gli scaffali un altro piccolo tesoro da leggere e che potesse fargli compagnia per tutta la settimana successiva. Sto parlando di una piccola perla della comunità di Pollena Trocchia: la biblioteca civica "Don Lorenzo Milani" che, negli anni Ottanta, era aperta al pubblico e accoglieva ogni domenica mattina e ogni giovedì sera i propri lettori in un locale al piano terra della casa canonica in via Cappelli 1. I primi libri di questa biblioteca provenivano dalla scuola media "Raffaele Viviani" e nel corso di alcuni anni - soprattutto grazie all'impegno dell'allora parroco di Pollena don Mimmo Noviello - fu arricchita con l'acquisto di nuovi volumi. Probabilmente si deve proprio a don Mimmo l'idea di intitolare la biblioteca al sacerdote toscano don Lorenzo Milani.
(Don Lorenzo Milani 1923-1967)
Dal 1983 al gennaio del 1989 ero presente come volontario in questa biblioteca insieme a Giuseppe Di Lorenzo e prima di me c'erano state come volontarie le sorelle Ciriello di via San Giacomo. Per me fu un'esperienza molto significativa perché potevo consigliare libri da leggere a tante persone e di tutte le età. La biblioteca, allora, possedeva un piccolo patrimonio perché i libri non erano tanti, ma tra gli scaffali c'erano delle autentiche perle come le commedie di Edoardo De Filippo, gli scritti di Primo Mazzolari, i romanzi di autori come Carlo Levi, Ignazio Silone e Dino Buzzati e soprattutto un rilevante numero di libri per bambini e ragazzi. Ricordo che per un certo periodo tra le ragazze fu letto un libro intitolato "E se mi facessi suora?". 
Due volumi particolarmente ricercati dai lettori attenti alla storia locale e che non si poteva dare in prestito in quanto costituivano una rarità, era i testi di Ambrogio Caracciolo intitolati "Sull'origine del villaggio di Trocchia a proposito di un marmo esistente nella sua chiesa parrocchiale", fortunatamente in seguito ristampato dalla Pro loco con una presentazione a firma di Maurizio Mollo, e "Sull'origine di Pollena Trocchia, sulle disperse acque del Vesuvio e sulla possibilità di uno sfruttamento del Monte Somma a scopo turistico" pure ristampato a cura della Pro loco "Giacomo Donizetti" di Pollena Trocchia.
Tra i lettori c'era anche un gruppetto di ragazze, come Annamaria Soria e Carla Mollo, che a piedi venivano da Trocchia e a loro si univa Pasqualina Mandarino.
Il lettore che ricordo sempre con affetto era un bambino di nome Antonio che ogni domenica veniva col fratellino più piccolo che teneva per mano: molto educato, aiutava con passione il fratellino a individuare il libro che poteva essere più interessante. L'ultima volta che lo vidi era tra giugno e luglio e a settembre in biblioteca venne solo il fratellino: aveva gli occhi umidi e mi consegnò l'ultimo volume letto da Antonio e fu allora che seppi che a Mondragone, in mare, quell'estate c'era stata una tragedia...
La sede della biblioteca "Don Lorenzo Milani" ospitò anche gli incontri che servirono per gettare le basi del gemellaggio tra la parrocchia di "San Giacomo Apostolo" e quella di Zinviè, nel Benin, retta dall'allora parroco don Vincenzo De Blasi. Questo gemellaggio fu per me una grande soddisfazione e molto si deve ai padri camilliani don Alberto Russo e don Fulvio Barca.


La foto mostra un angolo della mostra allestita in un locale adiacente alla sede della biblioteca "Don Lorenzo Milani" e dedicata alla parrocchia di Zinviè (foto di Toni Sorrentino)

A gennaio del 1989 ricevetti la cartolina per il servizio militare: dovetti chiudere quell'esperienza di volontariato in biblioteca che mi aveva dato molto sia a livello umano perché mi consentiva di conoscere tante persone, sia a livello culturale perché avevo la possibilità di leggere tanti libri.
In seguito la biblioteca fu chiusa e poi riaperta in un altro locale. Attualmente è di nuovo chiusa, ma spero vivamente che possa ritornare ad essere attiva come punto di aggregazione sociale e come centro di formazione culturale per tutti i membri della comunità locale. (a cura di Carlo Silvano)
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"La bambina della masseria Rutiglia", romanzo breve 
ambientato tra Pollena e Cercola durante la Seconda guerra mondiale


giovedì 9 luglio 2020

La bambina della masseria Rutiglia, romanzo breve ambientato a Pollena Trocchia durante l'ultima guerra

Qui di seguito propongo un brano tratto dal romanzo breve "La bambina della masseria Rutiglia" ambientato a San Gennariello, frazione del comune vesuviano di Pollena Trocchia, durante la Seconda guerra mondiale.

È appena l’alba con le gocce d’acqua color argento a coprire i sottili fili d’erba del ciglio del viottolo di campagna percorso da Carmelina che si è appena lasciata alle spalle la stalla dell’antica masseria “Rutiglia”: anche quella mattina si era vestita in fretta e ora con sé portava il solito fiasco pieno di latte, facendo attenzione a dove metteva i piedi. Per tutta la notte aveva piovuto e tante erano le pozzanghere lungo la stradina sterrata che attraversava frutteti e vigneti. 
‹‹Né uva “olivella”, né pere “stradone” e né “fioroni” di fichi, né mele “annurca”››, disse tra sé Carmelina che non aveva ancora compiuto undici anni. 
‹‹In questa stagione gli alberi non sono belli da vedere››, pensò lei che considera interessanti da guardare i vigneti e i frutteti solo quando sono colmi di uva e di frutta; in inverno inoltrato, invece, gli alberi sono senza foglie e senza frutti, sono spogli e sembrano spettri che immobili e silenziosi nella nebbia della gelida campagna la dominano. 
Camminava a piccoli passi e si accorse che ad un centinaio di metri da lei, vicino ad un ruvido e grezzo muro di cinta costruita con pietra lavica, c’era l’unica anziana vedova e senza figli della masseria “Rutiglia” che, curva per il peso degli anni e per i dolori di una vita, ispezionava con cura le fessure del muro dove probabilmente per sfuggire al gelo si era rintanato il suo amico rettile: un serpente di colore nero che durante i mesi estivi si lasciava avvicinare solo da lei e solo da lei accettava del cibo e qualche parola di conforto per le avversità della vita che in tempi di guerra tutti si aspettano di ascoltare. Ora però faceva freddo e il serpente non si faceva vedere e l’anziana donna che forse aveva perso anche il senso delle stagioni doveva essere preoccupata per lui.
Sul viottolo le pozzanghere erano proprio tante e bastava che un solo piede vi finisse dentro per ricevere l’aspro rimprovero della madre. Carmelina continua a fare attenzione perché sarebbe stato triste fare colazione con un solo bicchiere di latte condito da un ammonimento.
I campi dei frutteti erano seminati a rape che venivano mangiate dalle mucche: per dimostrare la propria riconoscenza ai nonni materni che regalavano loro del latte, Carmelina e le sue sorelle ogni pomeriggio si davano da fare per estrarre i tuberi dall’avida e gelata terra, così da raccoglierli su un carretto e portarli fino alla stalla, dove l’odore della paglia e del fieno le rassicurava offrendo loro un senso di protezione.
Davanti a Carmelina, ancora lontano, c’era il cancello in ferro battuto che consentiva l’uscita dalla proprietà della masseria sulla strada pubblica e lì, ogni volta che ci passava, si ricordava che aveva incontrato alcuni anni prima il padre che dall’Abissinia era ritornato inaspettatamente: sembrava un vecchio, con una folta barba che lo rendeva irriconoscibile e sulle spalle un sinistro sacco contenente tutto quello che era riuscito a racimolare in sei mesi di duro lavoro in Africa a costruire le strade dell’impero, dormendo in disastrate tende sulla nuda terra e a lottare anche contro i serpenti che di notte andavano ovunque col loro velenoso morso. Lì, proprio vicino al cancello della masseria, il padre l’aveva chiamata per nome e con le lacrime agli occhi per la gioia di aver visto una delle sue tante figlie, ma lei non si era lasciata avvicinare e correndo era tornata a casa per raccontare con la voce concitata alla madre che un vecchio aveva cercato di rapirla e metterla nel sacco per portarsela via e chi sa dove.

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