mercoledì 13 maggio 2009

Da Pollena al Vermont: l'avventura umana e professionale di Barbara

Grazie ad internet ho rintracciato una cara amica: ci siamo conosciuti quando da giovani volevamo offrire il nostro “mattone” per costruire una “Pollena” più a misura d'uomo, attraverso le pagine di un giornalino chiamato “Veseri 2000”. In seguito, come altre persone, per motivi di lavoro ci siamo persi di vista. Ora, però, abbiamo ripreso un legame: ho ritrovato Barbara Alfano e, grazie all'intervista che mi ha rilasciato, ho conosciuto e apprezzato tante cose nuove di lei. Pur vivendo in continenti diversi con internet possiamo ritornare a sentirci amici.

Per quanti anni hai abitato a Pollena?
Dalla nascita fino al 1996, quando mi sono trasferita a Napoli.
Da quanto tempo vivi negli Stati Uniti e qual è il tuo lavoro?
Mi sono trasferita negli USA nel 1999, per un dottorato di ricerca in Letterature Comparate. Ora sono docente di Lingua, Letteratura e Cultura Italiane al Bennington College, in Vermont.

Barbara... trasloca

Attualmente che genere di legami hai con la tua comunità di origine?
Torno a Pollena una o due volte all'anno anche per lunghi periodi, da uno a due mesi ogni volta. Non sono legata in nessun altro modo alla comunità se non attraverso la famiglia e gli amici. Sono certamente molto legata al paese stesso, ai luoghi, alle strade, agli odori, ai negozi, alle presenze...

Vivere negli USA tra opportunità lavorative e difficoltà quotidiane. Cosa mi racconti?
La vita qui è talmente diversa che non so da dove cominciare a parlartene...

Prova allora a darmi delle idee, più che dei dettagli.
La vita qui accade, non si ferma. Qui hai degli obiettivi e li raggiungi. Non sei alienato dal tuo lavoro, cominci una vita nuova anche a cinquant'anni. Le possibilità professionali sono quelle che concedi a te stesso: nessuno ti blocca, né ti spinge se non ti muovi da te. Qui la diversità è reale: in questo momento ho quattro studenti davanti a me che stanno facendo un esame: due hanno vent'anni e due più di cinquanta.

Continua...
Stasera andrò al supermercato che troverò aperto fino alle ore 22.30 - perché vivo in un paese piccolissimo, altrimenti sarebbe aperto 24 ore su 24 -, e lì troverò tutti i prodotti biologici che voglio, sceglierò di mangiare come mi pare e secondo le tradizioni di mezzo mondo.

consegna del dottorato (accanto a Barbara c'è il direttore di tesi, prof. Djelal Kadir)

E per quanto riguarda le difficoltà?
Le difficoltà, profonde, che hanno tutte le persone cresciute in una cultura mediterranea dove il rapporto con il proprio corpo, il corpo dell'altro, il rapporto con gli spazi, e il modo di intendere le relazioni personali sono molto diversi da quelli di una cultura di tradizione anglosassone. Per quanto riguarda il lavoro, l'affermazione professionale, e la possibilità di realizzare le mie aspettative, non ho avuto nessuna difficoltà; ero pronta per l'“America” da molto, molto prima di venirci.

Alla luce della tua esperienza negli USA cosa significa, per te, la parola “integrazione”? E come italiana che vive all'estero, quali sono le tue considerazioni sulle problematiche relative all'integrazione di persone che arrivano in Italia per cercare migliori condizioni di vita?
Quando ero studentessa di dottorato, nella mia classe di Critica Letteraria eravamo seduti intorno ad un tavolo, tutti i giorni, io, italiana, un'irlandese, un ebreo americano, un'israeliana, una musulmana kwaitiana, una cinese, due kenyote, un giapponese, un marocchino e un tunisino. Bei tempi. Mi mancano. Nel periodo del Ramadan, gli amici musulmani lasciavano l'aula dopo il tramonto per qualche minuto e andavano a mangiare un boccone. A nessuno sembrava strano. La mia amica kwaitiana, ogni giorno alle tre apriva il tappetino nel suo ufficio e pregava: un ufficio che divideva con altri dieci studenti, dieci cubicoli con altrettante scrivanie. A nessuno sembrava strano. Il 9 settembre 2001, io e la mia amica kwaitiana siamo andate a New York ad accompagnare i figli di lei all'aeroporto. Alle tre ci siamo fermate perché doveva pregare. Abbiamo pregato insieme, lei verso La Mecca, io verso la mia versione di Dio. Sempre quell'anno siamo andate insieme a vedere l'Oedipus Rex, a New York, messo in scena dalla compagnia nazionale di Atene. Non era l'unica a portare il velo in teatro, ce n'erano tante di donne col velo. La sera prima eravamo a casa sua e mangiavamo per terra, sul tappeto, con le mani. Mi ricordo che in quell'occasione il marito mi regalò la versione inglese autorizzata del Corano perché ero curiosa di capire un paio di cose. Ho un'altra amica carissima di tradizione musulmana, diversa però dalla prima. Lei è pakistana; ha sposato qualche anno fa il figlio di un diacono cattolico, e quest'anno ha preparato per la prima volta il pranzo natalizio per i suoceri e la famiglia del marito. Conservo la foto del suo matrimonio, celebrato in una moschea a New York. Poi lo hanno ricelebrato in Pakistan, poi in America... diversi dei miei amici sono coppie miste e i loro matrimoni sono sempre affari di due o tre stati! Vorrei aggiungere un'ultima cosa.

Dimmi pure!
Riguardo all'aspetto giuridico, siamo tutti soggetti alla legge del Paese in cui ci troviamo e non credo debba o possa essere altrimenti. Le leggi si possono e si devono migliorare, dove necessario.

Vivendo negli USA c'è una caratteristica del tuo essere italiana che hai “riscoperto” e di cui puoi dirti fiera?
Non mi piace la parola “fiera”. Fortunatamente, storicamente gli italiani hanno sempre avuto quella che viene indicata dagli addetti ai lavori (studiosi e intellettuali) come “weak national identity”, identità nazionale debole, nel senso che non siamo dei forti nazionalisti - con le dovute eccezioni ideologiche e storiche -, e meno male, anche se purtroppo la classe governativa del nostro paese sta cercando in tutti i modi di farci irrigidire dentro immaginari scafandri nazionalistici per il pessimo lavoro che sta facendo con l'immigrazione... Ripeto, non mi piace la parola fiera, ed è pur vero che sono più italiana qui di quanto non lo sia in Italia; qui ci si aspetta da me che io sia "italiana" e che quindi la mia persona e le mie abitudini corrispondano a tutta una serie di stereotipi. Il mio lavoro consiste nello smontarli, quegli stereotipi e io mi diverto a farlo. Ora finalmente ti rispondo... ho riscoperto di essere molto legata alla mia terra, al mare, alle strade di Napoli, agli odori, ai panorami, ai palazzi. Non sono invece legata a molta della mentalità e delle abitudini di noi italiani, riesco a farne a meno benissimo. Ci sono cose che non riuscivo ad accettare prima di lasciare l'Italia, da quando ero ragazzina, e che ancora non capisco: perché i figli restano a casa fino a trent'anni pur avendo un lavoro, perché le madri italiane continuano ad educare i ragazzi italiani in un certo modo, perché bisogna per forza appartenere ad una cappella ideologica, politica o religiosa che sia. Perché il giardino della villa del signor Tizio è pulitissimo e bellissimo e il marciapiede subito fuori dal suo cancello è disastrato, pieno di erbacce e sporco? Perché la gente guarda le veline in TV? Cose così. Ci sono altrettante cose degli USA che non capisco, ovviamente. Io credo sia importante essere capaci di vivere sempre in una posizione di dislocamento intellettuale, senza omologarsi mai, per essere più aperti e capire meglio l'altro. Lo dobbiamo al genere umano e alla terra tutta.

foto di compleanno

Chi è – e perché – il tuo autore italiano preferito?
Non ho un autore preferito in assoluto. La mia autrice italiana preferita in questo momento è Igiaba Scego; la leggo con molto piacere insieme ad altri autori italiani di origini straniere come Ingy Mubiayi, ad esempio, perché sono gli unici che mi raccontano l'Italia di domani mentre sta arrivando, insieme a quella di oggi. Mentre il governo italiano rimanda i barconi in Libia, loro mi raccontano di coppie miste, di bambini "bicolori", di realtà diverse, a volte tristi, a volte da ridere, ma comunque realtà nuove e mi sento elettrizzata. (a cura di Carlo Silvano)
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segnalo un'altra intervista sul tema dei nuovi emigranti:

4 commenti:

  1. Che bello rivedere Barbara, ho frequentato casa sua per un po' di tempo, andavo a scuola con la sorella Sandra. Purtroppo avevo perso le loro tracce pur sapendo della scelta americana di Barbara. Invio loro un saluto forte forte, non si sa mai possa raggiungerle.
    Ciao
    Ciro

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    Risposte
    1. Ciao Ciro! Mi ha raggiunta! Che bei ricordi... Un abbarccio! Barbara

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  2. Già stavo dicendo: ma chi è che mi scrive dal Vermount?
    La vecchiaia fa brutti scherzi!
    Ciao, spero di rivedervi.
    Ciro

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  3. ciao!! come faccio a contattarti barbara? sono un'italiana (cittadina americana) che vorrebbe, dopo il matrimonio, andare a vivere negli States e ho visto che il Vermont è uno dei posti più green (in senso anche di meno inquinato) del Paese...volevo avere delle info...mi puoi trovare scrivendomi a dionea77@hotmail.it..a presto! Angela

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