mercoledì 29 luglio 2020

Pietro Barca, La fabbrica dei lucchetti di Pollena Trocchia

POLLENA TROCCHIA – Non sono poche le famiglie che si sono potute formare grazie al lavoro offerto da quella che era la fabbrica dei lucchetti ubicata nel rione “Tartaglia” di Pollena: da ragazzino ho avuto modo di “conoscere” la ditta ALA perché spesso andavo a trovare Piero, compagno di banco dalla quarta elementare alla seconda superiore, nell’appartamento che la sua famiglia occupava all’interno dello stabilimento. Purtroppo, a fine anni Novanta, i proprietari della ditta ALA si trovarono in difficoltà e non riuscirono più a tenerla attiva, ed in occasione di un incontro tra dipendenti, proprietari e amministratori municipali svoltosi nell’aula consiliare del Comune di Pollena Trocchia ebbi modo, in qualità di corrispondente del settimanale “Metropolis”, di intervistare il signor Amedeo Letticini, comproprietario dell’azienda, che mi accennò le difficoltà dell’azienda a restare sul mercato a causa della spietata concorrenza delle aziende asiatiche. In seguito, la fabbrica chiuse e gli operai furono licenziati e dovettero cercare nuove alternative lavorative. Dopo un periodo di abbandono il fabbricato è stato ristrutturato e ha accolto un supermercato.
Nell’intervista che segue all’amico Pietro Barca (classe 1967) – che oggi lavora come dipendente del Ministero di Grazia e Giustizia – ho voluto rievocare le vicende della fabbrica ALA che fanno parte della storia di Pollena Trocchia e fanno parte anche della mia adolescenza.
(Pietro Barca)
Piero, a che età sei arrivato a Pollena Trocchia?
Ricordo che arrivai verso i 7 anni, intorno al 1975. Pollena, allora, era una cittadina dove si potevano vivere i primi anni di vita in modo più tranquillo rispetto alla città di Frattamaggiore da dove provenivo. Non ho delle vere e proprie radici in una particolare zona in quanto sono nato a Caserta, ho vissuto inizialmente ad Avella, provincia di Avellino, dove ho frequentato l'asilo, e qualche anno a Frattamaggiore, paese di mia madre e dei miei zii. Comunque, il “vero inizio di vita” è stato a Pollena Trocchia, dalle Suore degli Angeli, dove ho conosciuto te, amico mio, ed è cominciata la mia vita scolastica. Le elementari e le medie, hanno contribuito a formare la mia persona e a farmi crescere in un ambiente, a mio parere, per niente ostile. Nel corso della vita scolastica non sono mancate delle ragazzate che è norma comunque di quella età. Fortunatamente, la tua amicizia mi ha indirizzato al dialogo, alla partecipazione, alla comprensione fino alle superiori. Eravamo ragazzi ed avere un amico che ti capisce, ti ascolta e ti segue è un tesoro non facile da trovare. Pollena Trocchia per quanto fosse tranquilla non era esente da casi di droga e un nostro caro amico, come ricorderai, morì di overdose, e poi, anche allora, si registravano certi reati, come, ad esempio, i furti nelle abitazioni ed altro. Quindi si rischiava di avere amicizie alquanto dannose per la crescita con il rischio di trovarsi in brutti giri dove non potevi più tornare indietro. Per fortuna non è stato il caso nostro e di tanti ragazzi pollenesi che hanno trovato la giusta strada nella vita.

Dove abitavi e qual era il lavoro di tuo padre?
Abitavo in un appartamento in un'azienda che produceva lucchetti, la ditta “ALA”.  Una fabbrica che oltretutto ha dato anche lavoro a mio padre. Lui era una persona di fiducia dell'azienda in quanto ex carabiniere. Oltretutto si occupava del magazzino per la spedizione dei lucchetti in Italia e nel mondo. Era inizialmente fiancheggiato dal signor Giacomo, che lo aiutò a capire il sistema come funzionasse, poi andò egregiamente da solo vista la sua velocità nell'apprendimento. Mio padre allora aveva solo la licenza elementare. Si iscrisse alla scuola serale. Le lezioni si svolgevano presso la scuola media “Raffaele Viviani”. Era emozionato dallo studio, le sue materie preferite erano la storia e il diritto civile. Avendo fatto il carabiniere rileggere la Costituzione era per lui un ritorno al passato. Non riuscirà ad andare oltre la licenza media, ma il suo impegno lo porterà a fare, in pensione, il vicesindaco nel suo paese natale, Gratteri, in provincia di Palermo.  

Cosa ricordi in particolare della fabbrica ALA?
Ho tanti ricordi di quella ditta. Sin dal primo istante ho considerato, non solo l'appartamento in cui vivevo, ma anche ciò che mi circondava, tutto mio. La vastità di quell'ambiente, per me che ero piccolo, era un mondo da scoprire. La ditta cresceva e io con lei. Gli ambienti che venivano aggiunti non erano un mistero per me. Uffici nuovi e reparti dell'officina in via di espansione mi appartenevano. Non ero il proprietario ma fu proprio Antonio Letticino, il fondatore dell’azienda, a far sì che in famiglia amassimo quell'azienda. L'unica pecca era che più si allargava l'azienda più si restringeva il bel giardino che era situato sul retro.

(l'ex fabbrica ALA vista da via Apicella)


Cosa ti ricordi del giardino?
Era un piccolo paradiso! Ero sempre lì, dopo lo studio, a giocare con i tanti cani che abbiamo posseduto. C'era anche una falciatrice che utilizzavo molte volte per tagliare l'erba e sempre con tanta voglia di fare e di sfogare quell’energia che, ahimè, adesso vorrei tanto avere. 

(l'ex fabbrica ALA vista da via Sant'Antonio)


Ricordo che c’era anche un grande terrazzo…
Sì, in cima all'azienda: era stupendo! L'altezza e la posizione davano per un lato sul meraviglioso panorama del golfo di Napoli e per un altro lato si poteva ammirare il monte Somma con la cima del Vesuvio. Ricordo che ignorando il pericolo mi sporgevo tenendomi al bordo della ringhiera e senza stancarmi osservavo tutto ciò che c’era attorno perché era stupendo.
(l'ingresso principale dell'ex fabbrica ALA)

Qual è il tuo ricordo personale del signor Antonio Letticino, fondatore della fabbrica ALA?
Ho un bellissimo ricordo di don Antonio, così lo chiamavamo, anche perché il don, espressione tipicamente napoletana, è un titolo per le persone che meritano rispetto. La prima volta che lo vedemmo fu quando andai con mia madre a chiedere il lavoro per mio padre. Erroneamente entrammo dal cancello del giardino e non da quello principale e lui era lì tra le sue bellissime rose che curava con molta dedizione. Giustamente, per quello che faceva, non aveva giacca e cravatta, quindi mia madre lo scambiò per un addetto al giardino chiedendogli di poter parlare con il proprietario della ditta, perché aveva letto l'annuncio sul giornale riguardante l'assunzione di una persona di fiducia, qualità che mio padre possedeva pienamente. Lui fu gentilissimo ad accompagnarci fino agli uffici e a presentarci al ragioniere e fu proprio il ragioniere a dirci chi fosse il proprietario. Rimanemmo di stucco. L'umiltà di Don Antonio era insuperabile.  Nel tempo lo conobbi meglio e capii che uomini come lui se ne conoscono pochi nella vita. Ogni volta che rientravo da scuola e lo incontravo, mi salutava, come se fossi stato uno di famiglia, chiedendomi come fosse andata la giornata. Nel periodo in cui frequentavo all'Università la facoltà di Ingegneria, purtroppo mai conclusa, mi chiamava ingegnere ed io sorridevo.  Quando morì ci rimasi molto male. Era sparita una figura che rappresentava la mia infanzia, la mia crescita e lasciò dentro di me un grande vuoto.
(l'ex fabbrica ALA durante i recenti lavori di ristrutturazione)

Piero, anche tu hai avuto modo di lavorare in fabbrica. Cosa ricordi, in particolare, di quell'esperienza e dei compagni di lavoro?
Nel lontano maggio del 1988 fino ad aprile 1989 venni impiegato nell'azienda “ALA” in base all'allora art. 23 che permetteva di assumere giovani ricevendo agevolazioni fiscali. Fummo un bel po' di noi, giovani alla prima esperienza lavorativa, ma solo io ero quello che conosceva ogni ambiente dell'azienda e il più conosciuto dagli operai. Ognuno di noi era alla sua postazione di lavoro che fortunatamente, per prassi, doveva cambiare giorno per giorno. Lì ho scoperto di non essere amante dei lavori monotoni. Essere 8 ore su una macchina e ripetere sempre le stesse azioni era terribilmente noioso. Preferivo i lavori costruttivi. Preferivo leggere i progetti disegnati dall'ingegnere per poi arrivare al prodotto finito. Questo percorso competeva al capo officina che seguivo appena potevo. Gli operai esperti che ci circondavano, inizialmente, scherzavano con noi per la nostra inesperienza, ma successivamente, accorgendosi che eravamo una risorsa in più per il gruppo, ci hanno integrato e insegnato a risolvere i problemi sulle macchine o di vario genere. Comunque, fu un anno di esperienza di vita. Fare l'operaio è un lavoro duro se fatto seriamente e per tutta la vita. Un lavoro dove l'esperienza conta. Nessuno di noi fu confermato nell'azienda e tutti e quattro prendemmo strade diverse, ma contribuì a darci quello stimolo che, credo, ad oggi, abbia aiutato la nostra consapevolezza nel lavoro.

Oggi, ripensando alla ditta ALA, qual è l'aspetto che più ti lascia l'amaro in bocca?
Quando ho saputo che la ditta stava licenziando per motivi commerciali. Il mercato estero aveva invaso l'economia italiana portando con sé prodotti di scarso livello ma molto competitivi per il prezzo. Tra questi prodotti c'erano anche i lucchetti e ferramenta varia. Il lucchetto artigianale italiano, quindi quello fabbricato nella ditta “ALA”, era un prodotto affidabile, ma molto più costoso. Di conseguenza iniziò una lenta decadenza. Probabilmente ci saranno stati tanti altri motivi del declino della ditta, che io non conosco, ma credo che sia iniziata con il confronto con i prodotti esteri. Conoscendo i proprietari penso che siano arrivati alle strette  per arrivare alla chiusura. Mi auguro che abbiano aperto un'altra attività in altre regioni, ma non ne sono certo. Le mie considerazioni giungono alla conclusione che sono tutti stati vittima del commercio aggressivo che ha invaso l'Italia e lo Stato non ha potuto, in quel momento, sopperire alle varie richieste di aiuto delle migliaia di aziende in difficoltà. Non meritavano gli operai di essere licenziati, dopo tanti anni di attività, ma non voglio entrare in merito della questione perché sono state lotte molto lunghe tra la direzione e le maestranze. Altro dissapore è stato il vedere il fabbricato deteriorarsi: ogni volta che passavo di li, per rivedere, da fuori, l'appartamento dove avevo vissuto con la mia famiglia, notavo dei segni di decadimento. La trasformazione dell'edificio in un supermercato mi ha rallegrato per il solo fatto che hanno dovuto ristrutturare la ex ditta “ALA” lasciandola alquanto simile alla precedente.
(a cura di Carlo Silvano)
__________________________

Le foto presente in questo articolo intervista sono di Pietro Barca.
Carlo Silvano è il curatore di questo blog ed è autore di diversi libri. Per ulteriori informazioni cliccare su Libri di Carlo Silvano



sabato 25 luglio 2020

Pollena Trocchia, la biblioteca civica "Don Lorenzo Milani"

Pollena Trocchia - Terminata la Messa delle ore 9,30 frotte di bambini e ragazzi si avviavano verso la piccola biblioteca: ognuno aveva tra le mani un libro da consegnare e ognuno aspirava a trovare tra gli scaffali un altro piccolo tesoro da leggere e che potesse fargli compagnia per tutta la settimana successiva. Sto parlando di una piccola perla della comunità di Pollena Trocchia: la biblioteca civica "Don Lorenzo Milani" che, negli anni Ottanta, era aperta al pubblico e accoglieva ogni domenica mattina e ogni giovedì sera i propri lettori in un locale al piano terra della casa canonica in via Cappelli 1. I primi libri di questa biblioteca provenivano dalla scuola media "Raffaele Viviani" e nel corso di alcuni anni - soprattutto grazie all'impegno dell'allora parroco di Pollena don Mimmo Noviello - fu arricchita con l'acquisto di nuovi volumi. Probabilmente si deve proprio a don Mimmo l'idea di intitolare la biblioteca al sacerdote toscano don Lorenzo Milani.
(Don Lorenzo Milani 1923-1967)
Dal 1983 al gennaio del 1989 ero presente come volontario in questa biblioteca insieme a Giuseppe Di Lorenzo e prima di me c'erano state come volontarie le sorelle Ciriello di via San Giacomo. Per me fu un'esperienza molto significativa perché potevo consigliare libri da leggere a tante persone e di tutte le età. La biblioteca, allora, possedeva un piccolo patrimonio perché i libri non erano tanti, ma tra gli scaffali c'erano delle autentiche perle come le commedie di Edoardo De Filippo, gli scritti di Primo Mazzolari, i romanzi di autori come Carlo Levi, Ignazio Silone e Dino Buzzati e soprattutto un rilevante numero di libri per bambini e ragazzi. Ricordo che per un certo periodo tra le ragazze fu letto un libro intitolato "E se mi facessi suora?". 
Due volumi particolarmente ricercati dai lettori attenti alla storia locale e che non si poteva dare in prestito in quanto costituivano una rarità, era i testi di Ambrogio Caracciolo intitolati "Sull'origine del villaggio di Trocchia a proposito di un marmo esistente nella sua chiesa parrocchiale", fortunatamente in seguito ristampato dalla Pro loco con una presentazione a firma di Maurizio Mollo, e "Sull'origine di Pollena Trocchia, sulle disperse acque del Vesuvio e sulla possibilità di uno sfruttamento del Monte Somma a scopo turistico" pure ristampato a cura della Pro loco "Giacomo Donizetti" di Pollena Trocchia.
Tra i lettori c'era anche un gruppetto di ragazze, come Annamaria Soria e Carla Mollo, che a piedi venivano da Trocchia e a loro si univa Pasqualina Mandarino.
Il lettore che ricordo sempre con affetto era un bambino di nome Antonio che ogni domenica veniva col fratellino più piccolo che teneva per mano: molto educato, aiutava con passione il fratellino a individuare il libro che poteva essere più interessante. L'ultima volta che lo vidi era tra giugno e luglio e a settembre in biblioteca venne solo il fratellino: aveva gli occhi umidi e mi consegnò l'ultimo volume letto da Antonio e fu allora che seppi che a Mondragone, in mare, quell'estate c'era stata una tragedia...
La sede della biblioteca "Don Lorenzo Milani" ospitò anche gli incontri che servirono per gettare le basi del gemellaggio tra la parrocchia di "San Giacomo Apostolo" e quella di Zinviè, nel Benin, retta dall'allora parroco don Vincenzo De Blasi. Questo gemellaggio fu per me una grande soddisfazione e molto si deve ai padri camilliani don Alberto Russo e don Fulvio Barca.


La foto mostra un angolo della mostra allestita in un locale adiacente alla sede della biblioteca "Don Lorenzo Milani" e dedicata alla parrocchia di Zinviè (foto di Toni Sorrentino)

A gennaio del 1989 ricevetti la cartolina per il servizio militare: dovetti chiudere quell'esperienza di volontariato in biblioteca che mi aveva dato molto sia a livello umano perché mi consentiva di conoscere tante persone, sia a livello culturale perché avevo la possibilità di leggere tanti libri.
In seguito la biblioteca fu chiusa e poi riaperta in un altro locale. Attualmente è di nuovo chiusa, ma spero vivamente che possa ritornare ad essere attiva come punto di aggregazione sociale e come centro di formazione culturale per tutti i membri della comunità locale. (a cura di Carlo Silvano)
____________________________________ 
Il presente blog è curato da Carlo Silvano, autore di diversi libri
Per informazioni cliccare su Libri di Carlo Silvano

"La bambina della masseria Rutiglia", romanzo breve 
ambientato tra Pollena e Cercola durante la Seconda guerra mondiale


giovedì 9 luglio 2020

La bambina della masseria Rutiglia, romanzo breve ambientato a Pollena Trocchia durante l'ultima guerra

Qui di seguito propongo un brano tratto dal romanzo breve "La bambina della masseria Rutiglia" ambientato a San Gennariello, frazione del comune vesuviano di Pollena Trocchia, durante la Seconda guerra mondiale.

È appena l’alba con le gocce d’acqua color argento a coprire i sottili fili d’erba del ciglio del viottolo di campagna percorso da Carmelina che si è appena lasciata alle spalle la stalla dell’antica masseria “Rutiglia”: anche quella mattina si era vestita in fretta e ora con sé portava il solito fiasco pieno di latte, facendo attenzione a dove metteva i piedi. Per tutta la notte aveva piovuto e tante erano le pozzanghere lungo la stradina sterrata che attraversava frutteti e vigneti. 
‹‹Né uva “olivella”, né pere “stradone” e né “fioroni” di fichi, né mele “annurca”››, disse tra sé Carmelina che non aveva ancora compiuto undici anni. 
‹‹In questa stagione gli alberi non sono belli da vedere››, pensò lei che considera interessanti da guardare i vigneti e i frutteti solo quando sono colmi di uva e di frutta; in inverno inoltrato, invece, gli alberi sono senza foglie e senza frutti, sono spogli e sembrano spettri che immobili e silenziosi nella nebbia della gelida campagna la dominano. 
Camminava a piccoli passi e si accorse che ad un centinaio di metri da lei, vicino ad un ruvido e grezzo muro di cinta costruita con pietra lavica, c’era l’unica anziana vedova e senza figli della masseria “Rutiglia” che, curva per il peso degli anni e per i dolori di una vita, ispezionava con cura le fessure del muro dove probabilmente per sfuggire al gelo si era rintanato il suo amico rettile: un serpente di colore nero che durante i mesi estivi si lasciava avvicinare solo da lei e solo da lei accettava del cibo e qualche parola di conforto per le avversità della vita che in tempi di guerra tutti si aspettano di ascoltare. Ora però faceva freddo e il serpente non si faceva vedere e l’anziana donna che forse aveva perso anche il senso delle stagioni doveva essere preoccupata per lui.
Sul viottolo le pozzanghere erano proprio tante e bastava che un solo piede vi finisse dentro per ricevere l’aspro rimprovero della madre. Carmelina continua a fare attenzione perché sarebbe stato triste fare colazione con un solo bicchiere di latte condito da un ammonimento.
I campi dei frutteti erano seminati a rape che venivano mangiate dalle mucche: per dimostrare la propria riconoscenza ai nonni materni che regalavano loro del latte, Carmelina e le sue sorelle ogni pomeriggio si davano da fare per estrarre i tuberi dall’avida e gelata terra, così da raccoglierli su un carretto e portarli fino alla stalla, dove l’odore della paglia e del fieno le rassicurava offrendo loro un senso di protezione.
Davanti a Carmelina, ancora lontano, c’era il cancello in ferro battuto che consentiva l’uscita dalla proprietà della masseria sulla strada pubblica e lì, ogni volta che ci passava, si ricordava che aveva incontrato alcuni anni prima il padre che dall’Abissinia era ritornato inaspettatamente: sembrava un vecchio, con una folta barba che lo rendeva irriconoscibile e sulle spalle un sinistro sacco contenente tutto quello che era riuscito a racimolare in sei mesi di duro lavoro in Africa a costruire le strade dell’impero, dormendo in disastrate tende sulla nuda terra e a lottare anche contro i serpenti che di notte andavano ovunque col loro velenoso morso. Lì, proprio vicino al cancello della masseria, il padre l’aveva chiamata per nome e con le lacrime agli occhi per la gioia di aver visto una delle sue tante figlie, ma lei non si era lasciata avvicinare e correndo era tornata a casa per raccontare con la voce concitata alla madre che un vecchio aveva cercato di rapirla e metterla nel sacco per portarsela via e chi sa dove.

Per informazioni sul libro e su altre pubblicazioni di Carlo Silvano cliccare su Libri di Carlo Silvano





giovedì 4 giugno 2020

La tragedia della nave "Caterina Costa"

Ecco un brano tratto da "La bambina della masseria Rutiglia"

[...] Nella vita quotidiana dei bambini del borgo la guerra arrivava senza chiedere alcun permesso, senza avvisare nessuno. Era successo, ad esempio, che proprio durante quell’anno, nel tardo pomeriggio di una domenica di Quaresima, Carmelina stava seduta sui gradini della scala che portava alla sua casa e in silenzio osservava una gara di proverbi tra le bambine più grandi di lei. Una di loro ebbe appena terminato di dire “A marzo taglia e pota se non vuoi la botte vuota” che un terribile boato fece sobbalzare tutto il gruppetto delle fanciulle e nessuna di loro sapeva dove scappare, perché nessuna riusciva a capire quale pericolo potesse celare quel terribile scoppio che certamente portava con sé morte e distruzione. Solo nei giorni seguenti, ascoltando gli adulti che parlavano tra loro al crocicchio di due viottoli di campagna davanti a un’edicola religiosa oppure alla fontana pubblica per attingere acqua o, ancora, di notte, quando i genitori pensano che le figlie dormono, si apprese che nel porto di Napoli era esplosa una grande nave attraccata al molo prospiciente il quartiere di "Sant’Erasmo". L’esplosione aveva ucciso centinaia e centinaia di persone, soprattutto militari, e per tutta la città aveva seminato i propri frammenti incendiari che avevano causato ingenti danni. Carmelina aveva saputo da sua sorella Paola che la motonave saltata in aria si chiamava “Caterina Costa” e questa storia, avvenuta il 28 marzo del 1943, lei ne sentì parlare in seguito anche dal futuro marito, il quale ai propri figli spesso raccontava che quel triste pomeriggio stava nella chiesa parrocchiale dell’“Immacolata e di Sant’Antonio Patavino” a Cercola come chierichetto portando la croce della via Crucis, quando, all’improvviso il terribile scoppio trafisse l’animo dei presenti che temettero un bombardamento aereo attorno alla chiesa e tutte le persone che seguivano il rito scapparono via, lasciando solo il sacerdote e lui chierichetto. ‹‹La guerra è una tragedia: speriamo che non si ripeta più››, dirà un giorno Carmelina a due dei suoi figli ancora bambini, mentre li portava a fare una passeggiata nella villa sul lungomare di Napoli e indicando loro i danni ancora visibili sulla facciata est di “Castel Nuovo” a causa dell’esplosione della moto nave “Caterina Costa”.

Per informazioni sul libro cliccare su libri di Carlo Silvano oppure cercare su www.youcanprint.it


martedì 19 maggio 2020

La bambina della masseria Rutiglia

POLLENA TROCCHIA - Ieri ho chiuso in tipografia un mio libretto di cento pagine: è un romanzo breve ambientato nella masseria "Rutiglia" tra Cercola e Pollena Trocchia durante la Seconda guerra mondiale. Il titolo del libretto è "La bambina della masseria Rutiglia". Qui di seguito la prefazione scritta da mia nipote Carmela.

Prefazione
di Carmela Silvano

Nel territorio napoletano non è raro trovare ancora, disseminate nelle campagne, antiche masserie ereditate da un tempo lontano, quando questi agglomerati di abitazioni e stalle erano circondate da enormi distese di campi coltivati e sporadiche casupole. La masseria Rutiglia non fa eccezione anche se in questi ultimi decenni il suo territorio è stato stravolto: oggi, infatti, si presenta con zone che erano state tolte ai coloni e poi abbandonate, mentre in altre zone si evidenziano costruzioni e manufatti con qualche capannone artigianale. Al di là di questo scempio, essa è ancora lì, al confine tra due comuni della provincia di Napoli, Cercola e Pollena, il cui confine le passa accanto. Se volessimo visitarla dovremmo percorrere la strada provinciale che da Cercola conduce a Sant’Anastasia e svoltare in una stradina sterrata – probabilmente rimasta immutata da tempi immemori – nella zona di San Gennariello, frazione di Pollena. Qui ci sembra quasi di fare un salto nel passato e nel silenzio della campagna, lontano dal caos della cittadina lasciata alle spalle e si ha la sensazione di sentire i passi svelti della nostra protagonista. Immaginiamo quindi di trovarci nella campagna napoletana di quasi ottant’anni fa: è una mattina piovigginosa e siamo nel pieno della Seconda guerra mondiale. Carmelina una bimbetta di undici anni sta rincasando dopo essere andata a prendere il latte presso la stalla dei nonni materni. Felice di poter fare colazione con qualcosa di caldo dopo il digiuno del giorno precedente, si affretta per quella stradina piena di pozzanghere. La nostra protagonista è una bimba curiosa e pur mantenendo un’andatura veloce i suoi occhi si soffermano sulle immagini familiari che rievocano i ricordi della sua infanzia, ricordi che lei, non sa ancora, resteranno indelebili e saranno spunto proprio per questi racconti. Quanto segue, infatti, non è una storia biografica, ma bensì aneddoti della vita di Carmelina che hanno ispirato l'autore, e figlio della protagonista, che ha voluto dar loro una dimensione concreta, in un passato che è arrivato a noi solo attraverso i ricordi di chi lo ha vissuto.
I capitoletti si susseguono seguendo una logica simile ai ricordi, creando un parallelismo con la protagonista bambina e adulta. Bastano poche e semplici immagini, come un muretto di cinta e un albero di nespole, a dar vita a ricordi felici come la scuola, la sua maestra e la bella stagione passata nei campi con tutta la famiglia e i vicini. Ci viene mostrato un quadro fatto di semplice devozione, duro lavoro, resilienza alla fame e alla povertà. Gli aneddoti semplici e brevi ci descrivono un’epoca dove bisognava darsi da fare se non si voleva soccombere.
I dolci ricordi di caramelle ai frutti distribuite dalla maestra si intrecciano però a quelli più aspri di inverni passati a digiuno o, peggio, a quelli che sono legati ad una storia che conosciamo fin troppo bene. Attraverso i ricordi di una bambina riconosciamo quei cruenti momenti che abbiamo studiato nei libri di storia, ne abbiamo imparato gli avvenimenti, le date, ma che mai potremmo comprendere senza queste piccole perle di memoria. Ecco che i ricordi ci fanno vivere in prima persona immagini spaventose di uomini costretti a scavare buchi nella terra per nascondersi dai soldati nemici, vecchi che con carrettini raccolgono i corpi senza vita dei propri figli dalla strada, oppure terribili esplosioni che seminano il panico nella comunità. Sarà proprio la nostra protagonista che, anni dopo, usando poche parole ben ponderate come soleva sin da bambina, a dire che ‹‹la guerra è una tragedia: speriamo che non si ripeta più››.

Per informazioni sul libro cliccare su La bambina della masseria Rutiglia



sabato 28 marzo 2020

La Taverna della Cerqua


È molto importante per me questo libro perché riguarda Cercola, il paese di origine della mia famiglia, e perché è stato scritto da Giorgio Mancini, una persona che ho conosciuto e stimato.
Diverse pagine de “La Taverna della Cerqua. Viaggio lungo quattro secoli nella storia di Cercola” le conoscevo già, perché erano state al centro di conversazioni avute con l’Autore oppure perché frutto di ricerche che negli anni Novanta avevo svolto presso l’Archivio Storico della Diocesi di Napoli. Ci sono però anche due “pagine” che ho letto con attenzione ed emozione, perché riguardano episodi raccontatimi da mio padre. Il primo episodio[1]  riguarda una tragedia ferroviaria avvenuta il 20 dicembre 1941 nella stazione di Cercola con la morte di 25 persone, tra cui una cugina di mio padre.
Il secondo episodio, invece, fa parte della drammatica rappresaglia eseguita il 29 settembre del 1943 dalle truppe tedesche, come “risposta” ad alcune azioni partigiane: sia a Ponticelli (quartiere periferico della città di Napoli) che in diverse strade del comune di Cercola, i soldati germanici catturarono molti passanti fucilandoli sul posto. In molti casi entrarono anche nelle abitazioni per arrestare a trascinare all’esterno giovani che non avevano alcun legame con i partigiani, per poi ucciderli sulla strada. Tra queste vittime ci furono anche i fratelli Carmine e Giovanni Maione[2] che furono catturati in casa mentre si accingevano a pranzare: portati in strada furono uccisi alle spalle. Quando il padre dei due giovani seppe della tragica uccisione dei propri figli si procurò un carretto e con questo trasportò le salme al cimitero. Ancora fino a qualche anno fa mio padre, che all’epoca aveva circa tredici anni, ricordava con le lacrime agli occhi l’immagine di quest’uomo che tirava il carretto con i cadaveri dei figli.
 La Taverna della Cerqua. Viaggio lungo quattro secoli nella storia di Cercola, rappresenta per me un piccolo tesoro: ben scritto e ben documentato è una inesauribile fonte di informazioni e ricordi che fanno parte di tutte le persone che, a vario titolo, hanno un legame con la comunità cercolese.



[1] Vedi p. 176.
[2] Vedi p. 435.

venerdì 13 settembre 2019

Vincitori del concorso ANPAL, Appello al Presidente della Repubblica

Dal 2011 è attiva l'Associazione culturale "Nizza italiana" che ha tra i suoi obbiettivi anche quello di sensibilizzare l'opinione pubblica su problemi sociali ed economici (art. 4 dello Statuto). Con l'amico Agostino La Rana ho scritto la lettera che segue:


Ill.mo Signor Presidente
della Repubblica Italiana
Prof. Sergio Mattarella

Le scriviamo per sollecitare un Suo autorevole intervento presso il Presidente della Regione Campania che, ad oggi, si rifiuta di firmare la convenzione tra Regione Campania e ANPAL, atto che consentirebbe l’assunzione a tempo determinato per 471 vincitori del concorso. Attualmente la Regione Campania è l’unica a non aver ancora sottoscritto la convenzione e ciò è davvero singolare se si pensa che la metropoli di Napoli, così come le province ad essa limitrofe, è l’emblema della disoccupazione in Italia.
Chi conosce la Legge 28 marzo 2019 n. 26 sa che essa consente a persone che hanno un reddito insufficiente di ottenere dallo Stato un concreto sostegno per entrare a pieno titolo o per reinserirsi nel mondo del lavoro anche grazie al tutoraggio dei cosiddetti “navigator”, e questi ultimi, sempre grazie alla Legge sopra citata, avranno l’occasione per guadagnarsi dignitosamente uno stipendio svolgendo un’attività lavorativa qualificante. Al di là delle nostre personali valutazioni su chi ha elaborato e voluto la Legge sopra citata, bisogna riconoscere che essa rappresenta un passo avanti decisivo per poter realmente affermare che l’Italia è una repubblica fondata sul lavoro.
Siamo certi, signor Presidente, che Lei prenderà a cuore le attese dei nostri concittadini in Campania che confidano in questa Legge per cambiare la propria situazione economica ed esistenziale.

Dott. Carlo Silvano (presidente Associazione culturale "Nizza italiana")
Avv. Agostino La Rana(vicepresidente dell'Associazione culturale "Nizza italiana")

Villorba, lì 9 settembre 2019