domenica 21 maggio 2023

1736-1801, Le mammane di Pollena

 

Pollena Trocchia - Dallo studio dei libri V e VI di Battesimo della chiesa di “San Giacomo Apostolo il Maggiore” di Pollena, che abbracciano il periodo storico che va dal 1736 al 1801, emerge una delle figure sociali più caratteristiche del casale di Pollena, quella della “mammana”, l’attuale ostetrica, chiamata anche “levatrice”, e che in un certo senso incarnava il ruolo di una figura materna, e assisteva le donne durante il parto e il periodo postpartum. La sua presenza e il suo sostegno erano di fondamentale importanza per le donne che affrontavano l’esperienza del parto, spesso accompagnata da ansie e dolori.

Grazie all'opera delle "mammane" dai libri parrocchiali si ricavano informazioni sull'estensione del territorio della Parrocchia di Pollena: al fonte battesimale della chiesa di San Giacomo di Pollena furono portati anche bambini nati, ad esempio, a Caravita, nelle masserie Filichito, Miranda, Attingente, Monte Oliveto Grande e Monte Oliveto Piccolo, e altre ancora. In altre parole, nel XVIII secolo la giurisdizione della parrocchia di Polleba andava oltre gli attuali confini.

La “mammana” doveva essere considerata una persona compassionevole e devota, impegnata a sostenere le donne nel momento della maternità. La sua attività professionale si basava sull’aiutare le neo mamme durante il travaglio, la nascita e il periodo post-partum. Questo ruolo richiedeva una conoscenza delle pratiche sanitarie e un profondo impegno nell’assistenza alle donne in uno dei momenti più importanti e delicati della loro vita.

Sotto il profilo spirituale, la figura della “mammana” doveva essere vista come un tramite di grazia divina, poiché offriva sostegno e conforto alle donne durante il processo del parto. La sua presenza rappresentava anche una connessione tra il mondo terreno e quello spirituale, in cui si creava un legame speciale tra la madre, il bambino e Dio.

Nel periodo preso in considerazione (1736-1801) la professione della “mammana” si basava su una solida etica professionale, che le impediva di praticare aborti o di farsi coinvolgere in atti di superstizione in caso di parti difficili. Questo aspetto morale della sua professione sottolinea il suo rispetto per la vita e la sua dedizione a seguire i principi morali e religiosi della comunità. La sua responsabilità era quella di preservare la salute e il benessere delle donne, nel rispetto della sacralità della vita umana.


Nel contesto spirituale, la figura della “mammana” potrebbe essere considerata come un esempio di servizio altruistico e di dedizione verso gli altri. Il suo impegno nel fornire cure e supporto alle donne richiedeva una profonda compassione e una grande sensibilità verso le necessità e le paure delle neo mamme. La sua presenza, quindi, poteva essere vista come una manifestazione tangibile dell’amore e della cura divina per le sue creature. 

Informazioni sulla figura della "mammana" si possono reperire dal volume "La comunità di Pollena dal 1760 al 1819. Note di storia sociale e religiosa", da pagina 109 a pagina 116. 


 

mercoledì 17 maggio 2023

Pollena, la devozione a san Michele arcangelo nella cappella di palazzo Valente

 


(nella foto un rosone e l'ingresso alla cappella di san Michele arcangelo a Pollena)

Pollena Trocchia - La figura di San Michele arcangelo è di grande importanza nella tradizione religiosa e spirituale: san Michele è considerato uno degli arcangeli principali, un guerriero celeste e un difensore della fede. Il suo nome significa “Chi è come Dio?”, che rappresenta il suo ruolo di difendere la volontà divina e combattere il male.

San Michele è spesso, così, rappresentato come un guerriero che combatte il diavolo o come un angelo che pesa le anime nella bilancia del giudizio divino. La sua figura incarna coraggio, forza e giustizia ed è considerato un protettore, sia a livello individuale che collettivo, e molti credenti ricorrono a lui per chiedere protezione, guida e intercessione divina.

Un tempo sul territorio della comunità parrocchiale di Pollena, cioè nel palazzo Valente, esisteva una cappella intitolata a san Michele, consacrata nel 1703 e aperta ai fedeli almeno fino nei primi decenni dell’Ottocento, e oggi sarebbe importante riscoprire la figura e la devozione nei confronti dell'arcangelo Michele, perché ciò può avere molteplici significati spirituali. Innanzitutto, il recupero, almeno simbolico, della cappella intitolata a san Michele arcangelo e la cura dei suoi ruderi possono rappresentare un momento di rinnovamento e ripristino della fede nella comunità. L’eventuale presenza di una cappella dedicata all'arcangelo Michele potrebbe offrire uno spazio sacro per la preghiera e la riflessione, un luogo in cui i fedeli possono raccogliersi e trovare conforto spirituale.

Inoltre, la figura di San Michele può ispirare la comunità di Pollena ad abbracciare i valori di coraggio, giustizia e difesa della fede. Può fungere da modello di virtù e come guida spirituale nella lotta contro il male, sia a livello individuale che collettivo. Riscoprire la devozione nei confronti di san Michele potrebbe incoraggiare la comunità a perseverare nella fede, a combattere l'ingiustizia e ad affrontare le sfide con coraggio e fiducia.

Infine, la devozione a san Michele può promuovere l'unità e la coesione nella comunità. La condivisione di una figura di riferimento spirituale può favorire un senso di appartenenza e solidarietà tra i membri della parrocchia. La celebrazione di festività o momenti di preghiera dedicati a san Michele arcangelo può fungere da momento di comunione e condivisione di valori spirituali.

In conclusione, riscoprire la figura e la devozione nei confronti di san Michele arcangelo può avere un impatto significativo sulla comunità parrocchiale di Pollena. Attraverso la riflessione sulla sua figura, i fedeli possono trarre ispirazione per la loro vita spirituale, trovare conforto e protezione, e promuovere l'unità all'interno della comunità stessa.

Informazioni sulla cappella di san Michele arcangelo ai Galitti si possono reperire nel volume “La comunità di Pollena dal 1760 al 1819. Note di storia sociale e religiosa”.

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Il presente blog è curato da Carlo Silvano, autore di numerosi volumi.


 




domenica 14 maggio 2023

La cappella dell'Avetrana tra Pollena e Massa di Somma

 

La Cappella dell’Avetrana si trovava tra i casali di Pollena e di Massa di Somma, e doveva essere un luogo di grande importanza storica e spirituale per la comunità locale. Questa cappella, un tempo custode di un eremo, era dedicata alla Vergine Maria.

Nel 1740 l’eremo della Cappella dell'Avetrana ospitava due eremiti, che conducevano una vita dedicata alla preghiera e alla contemplazione. La scelta di vivere in un eremo, lontano dalla società e dalle sue distrazioni, era comune tra i cristiani del passato che cercavano di seguire una vita di preghiera e penitenza, in modo da avvicinarsi a Dio. Gli eremiti passavano le loro giornate pregando, meditando e lavorando per guadagnarsi il pane quotidiano. La vita eremitica era spesso molto dura, ma per molti era anche molto gratificante, poiché permetteva loro di dedicarsi completamente a Dio e alla propria spiritualità.

La devozione alla Vergine Maria era centrale nella vita degli eremiti e in generale nella tradizione cristiana. Maria, madre di Gesù, è considerata la più grande tra tutti i santi e viene spesso invocata come la “Madre della Misericordia”. La sua figura, simbolo di amore, compassione e protezione, è stata al centro di molte preghiere e di molte opere d'arte. La statua della Vergine dell'Avetrana rappresentava per gli eremiti un simbolo di speranza, conforto e protezione, e la loro devozione verso di lei doveva certamente essere profonda e sincera.

Oggi la Cappella dell'Avetrana non esiste più a causa delle eruzioni del Vesuvio, ma la storia degli eremiti che vivevano in quel luogo di preghiera è un esempio di come la vita dedicata a Dio e alla spiritualità, possa essere una scelta valida e significativa per molte persone. La vita semplice e austera degli eremiti ci invita a riflettere sulla nostra relazione con il divino, e sulla nostra capacità di trovare significato e scopo nella preghiera e nella meditazione.


Alcune notizie sulla cappella dell’Avetrana si possono trovare nel volume “La comunità di Pollena dal 1760 al 1819. Note di storia sociale e religiosa”, pagina 42.

 



 

venerdì 27 maggio 2022

Massa di Somma, presentazione de "La bambina della masseria Rutiglia"

 

(Massa di Somma: il pubblico presente alla presentazione e sul palco da sx verso dx: Carlo Silvano, il sindaco di Massa Gioacchino Madonna, l'assessore Clara Ilardi, la conduttrice Melania Mollo e il poeta Giuseppe Vetromile)


Massa di Somma - Nell'ambito della quarta edizione di AperiCult stasera nella villa comunale "Meravilla" di Massa di Somma è stato presentato il racconto "La bambina della masseria Rutiglia". A condurre la serata Melania Mollo, con la presenza del sindaco Gioacchino Madonna, dell'assessore Clara Ilardo e del poeta Giuseppe Vetromile.

Ecco una sintesi della serata.

Melania Mollo: Carlo Silvano, che legame hai con Massa di Somma ?

Carlo Silvano: Dal 1963 al 1966 la mia famiglia risiedeva in questa zona: per l’anagrafe sono nato nel comune di Cercola, ma in realtà sono nato nel 1966 in un’abitazione a pochi metri da questa villa, quando Massa di Somma era una frazione del comune di Cercola, e sono stato battezzato nella chiesa parrocchiale della Madonna Assunta. Poi, dopo la mia nascita, la mia famiglia si trasferì a Pollena, dove tuttora risiede mio padre. Qui a Massa di Somma, comunque, ho ancora tanti parenti. Il mio legame con Massa di Somma è quindi forte e se per l’anagrafe sono un cercolese, nei fatti sono un massese.

Melania: Stasera ci parlerai del tuo racconto intitolato “La bambina della masseria Rutiglia” scritto e pubblicato nel 2020; puoi raccontarci qualcosa dei libri che hai pubblicato prima di questa data?

Carlo: Ho iniziato a scrivere quando avevo circa vent’anni e il primo romanzo che ho pubblicato si intitola “Il boiaro”, è ambientato durante la Rivoluzione russa del 1917 ed è stato proposto al pubblico in tre edizioni.

Un volumetto che pure ha trovato una certa diffusione tra il pubblico, l’ho scritto nei primi anni Novanta, e riguarda il fenomeno criminoso dell’usura e l’impegno che padre Massimo Rastrelli profuse per aiutare le vittime degli strozzini.

Un altro libretto a cui sono molto legato riguarda la costruzione della chiesa parrocchiale di Pollena, che fu edificata dal 1760 al 1819. In questo libretto parlo anche dei fratelli Tommaso ed Elia Garone: il primo fu parroco di Massa di Somma tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, il secondo fu parroco di Pollena. Provenivano da Buonabitacolo, un comune del salernitano e nel bene e nel male fecero molto per le nostre comunità parrocchiali.

Probabilmente il detto popolare “Massa, Pollena e Trocchia: tre paesi una parrocchia”, risale agli inizi dell’Ottocento, quando non c’era ancora stata l’unificazione dei casali di Trocchia e Pollena, avvenuta nel 1811, e quando per un certo periodo di tempo i fratelli Tommaso ed Elia seguivano - a causa dell’assenza del parroco - anche la comunità parrocchiale di Trocchia. Tommaso ed Elia furono due fratelli molto uniti tra loro e quindi si ritrovarono insieme ad amministrare le tre parrocchie che, in effetti, e per un certo periodo, erano diventate sotto la loro guida pastorale un’unica e grande parrocchia che abbracciava i casali di Massa, Pollena e Trocchia.

Oltre a questi volumi ho pubblicati libri che riguardano la realtà carceraria di Treviso e il mobbing, ed altri romanzi. In sintesi avrò pubblicato oltre venti titoli. 


 

Melania: Dove e quando è ambientato “La bambina della masseria Rutiglia”?

Carlo: La masseria Rutiglia si trova nel comune di Cercola al confine col comune di Pollena Trocchia, e precisamente con la frazione di San Gennariello. È un lungo racconto ambientato durante la fase più cruenta della Seconda guerra mondiale, quando i tedeschi occupavano la Penisola italiana e i bombardamenti aerei degli alleati si intensificarono. Non è un racconto biografico, però quasi tutti i capitoletti sono stati scritti prendendo spunto da un fatto realmente accaduto nella famiglia di mia madre oppure nella comunità locale, come la rappresaglia dei tedeschi del 29 settembre del 1943 che causò tantissime vittime civili tra Ponticelli e Cercola, lo scoppio e l’affondamento nel porto di Napoli della motonave “Caterina Costa”, il deragliamento di un treno nella stazione di Cercola il 21 dicembre del 1941 e l’ultima eruzione del Vesuvio.

Melania: Cosa ti ha spinto a scrivere questo racconto?

Carlo: L’ho scritto nei primi mesi della nota pandemia del covid: con mia moglie, i miei figli e mia suocera ero recluso in casa, e tra un lavoretto e l’altro, come tinteggiare le pareti, ho scritto i capitoletti di questo lungo racconto. All’inizio ciò che mi spingeva a scrivere queste pagine era il desiderio di lasciare ai miei tre figli, che sono nati e vivono a Treviso, il ricordo della nonna paterna e anche quello di conoscere le proprie origini in modo da avere un legame profondo con la nostra terra. Poi una volta terminato il testo, e rileggendolo, ho pensato che far conoscere questa storia potesse essere utile per comprendere cosa provano i bambini che vivono la terribile esperienza della guerra, con le sue distruzioni e con le sue vittime. E così ho deciso di pubblicarlo.

Melania: I personaggi che “popolano” questo racconto sono realmente esistiti: oltre a tua madre, ad esempio, ci sono le tue zie e i tuoi nonni materni. C’è anche una persona che molti anziani, non solo di Pollena ma anche di Massa, ricordano ancora oggi. Vi leggo un brano tratto dal racconto:

A fine ottobre, lungo la via, i fanciulli si fermavano ora per raccogliere dei fiorellini all’ombra delle siepi, ora per prendere le ultime more nere che, in estate, erano maturate tra le aguzze spine dei rovi, e che portavano alla loro maestra che era sempre gentile e sorridente. La maestra ringraziava e sistemava i fiorellini in un vaso bianco con delle linee azzurrine davanti alla statuina della Madonna che aveva in aula col compito di proteggere tutti i bambini dalle bombe che gli aerei lasciavano cadere. Le more, invece, la maestra se le portava a casa e quando il giorno dopo ritornava a scuola aveva, per ogni allieva, un dolcetto o una morbida caramella al sapore di mora.

Le bambine del borgo erano felici di averla come maestra e di buon mattino, anche con la pioggerellina e col freddo che non facevano alcuna fatica a passare attraverso i loro poveri vestiti per posarsi sulla pelle di corpicini che mai erano stati floridi, si sarebbero fermate più tempo a raccogliere fiori dal ciglio della strada oppure more a ottobre o, ancora, nespole a dicembre da un albero che aveva i rami che cascavano sulla pubblica via, ma capitava, e anche spesso, che da dietro un rovo o da un possente tronco di pioppo apparisse all’improvviso Luigi, un giovanotto del villaggio che andava in giro sempre scalzo, e che lanciava grida ed emetteva urla indescrivibili: i bambini, allora, si davano alla fuga. I più piccoli si spaventavano e correvano nella stessa direzione dei più grandi, ma questi ultimi fingevano solo di essere terrorizzati perché sapevano che Luigi non voleva e non era capace di fare del male a nessuno, e anche perché questo ragazzone meritava rispetto: non sapeva parlare, non era mai andato a scuola e aveva una sorella, semplice e buona, che piangeva ogni volta che qualcuno prendeva in giro suo fratello. Loro, i bambini, non volevano però che lei piangesse e allora evitavano di essere sgarbati con quel giovanotto incapace di parlare.

Col passare degli anni Luigi sarebbe diventato adulto e col trascorrere del tempo sarebbe calato il numero delle persone che si divertivano a prenderlo in giro e a trattarlo male: con la sua infermità si sarebbe guadagnato la stima di tutto il paese, perché – e nessuno ha mai capito come facesse – riusciva a sapere chi fosse morto al semplice suono delle campane e a recarsi al funerale partecipando, e calzando delle scarpe solo per questo genere di occasioni, al corteo funebre che partiva dalla casa del defunto per arrivare in chiesa e dalla chiesa al camposanto. Luigi, con le sue scarpe sempre lucidate di un nero vivo, se ne stava in fondo al corteo con la sua semplicità e riservatezza, e anche la guardia municipale lo rispettava salutandolo con serietà e con un leggero inchino del capo. A Luigi non importava chi fosse il defunto: benestanti o poveri, persone conosciute o meno, giovani o anziani, buone o cattive che fossero state in vita, tutti quelli che in paese morivano ricevevano il suo commosso omaggio.

 

Melania: In questo racconto, però, hai dedicato dello spazio anche a certe tragedie, come, appunto, l’affondamento nel porto di Napoli della nave “Caterina Costa”…

Carlo: Sì. Ero bambino quando trovandomi davanti al Castel Nuovo di Napoli chiesi a mia madre cosa fossero quelle “cicatrici” che, ancora oggi, si possono vedere su una facciata del castello, e mia madre mi disse che risalivano alla Seconda guerra mondiale e che erano state causate dallo scoppio di una nave. In effetti, pochi anni fa, facendo delle ricerche su internet, ho conosciuto questa tragedia che nella Nota conclusiva ho così riassunto:

L’esplosione della motonave da carico “Caterina Costa” avvenne il 28 marzo del 1943: a bordo c’erano sia militari italiani che tedeschi ed erano state imbarcate anche 900 tonnellate di munizioni, carri armati e cannoni a lunga gittata. La motonave doveva far parte di un convoglio diretto a Biserta, in Tunisia, ma a bordo si verificò un incendio1 che non si riuscì a domare: verso le ore 17.39 le fiamme causarono una devastante esplosione uccidendo 549 persone; un centinaio, invece, furono i dispersi e circa tremila i feriti2. Secondo una versione ufficiosa i morti furono circa 600. L’esplosione fu così violenta da allarmare anche gli abitanti dei comuni di Cercola e Pollena Trocchia. Anche mio padre ha spesso parlato della tragedia per aver udito, mentre da chierichetto partecipava alla via Crucis col proprio parroco, lo scoppio e per aver sentito diverse testimonianze sulla strage dei militari imbarcati sulla motonave.

Melania: Ci sono due episodi che troviamo nel tuo racconto: il primo riguarda l’ultima eruzione del Vesuvio che, purtroppo, distrusse anche l’archivio parrocchiale di Massa di Somma, il secondo il deragliamento di un treno passeggeri della Circumvesuviana nella stazione di Cercola. Riguardo all’eruzione del Vesuvio, nel terzo capitolo alle pagine 21 e 22 della prima edizione, hai scritto:

Carmelina continuava a camminare lungo il viottolo della masseria “Rutiglia” e davanti a lei, lontano circa sei chilometri in linea d’aria, dal cono del Vesuvio si alzava verso il cielo il pinnacolo di fumo: a quella scena lei era fin troppo abituata e non poteva sapere che solo nel giro di qualche anno, dal 18 al 24 marzo del 1944, dalla bocca di quel vulcano sarebbe uscito anche il magma incandescente e devastatore di contrade e chiese, come quella di “Maria Assunta in Cielo” a Massa di Somma. Nel marzo del 1944 la lava, lenta ma inarrestabile, come un fiume avrebbe sommerso terre coltivate, incendiato case coloniche e senza provare alcun sentimento religioso avrebbe poi distrutto anche una chiesa, facendo bruciare l’intero archivio parrocchiale e cancellando per sempre la memoria di un borgo con secoli e secoli di vita e di storia.

In futuro, proprio sul fiume di lava solidificatasi nel 1944, Carmelina diventata donna e sposa, avrebbe vissuto per circa tre anni in una casa con i suoi primi cinque figli. Tutto questo, però, lei ora bambina non poteva nemmeno immaginarlo…

Carlo: Come ho detto prima, sono nato in un’abitazione qui a pochi metri. Pochi giorni dopo la mia nascita la mia famiglia si è trasferita a Pollena, e quindi non ho nessun ricordo della casa dove sono nato. Però mia madre spesso raccontava di questi pochi anni vissuti qui, perché qui c’è la casa dei nonni materni e ci sono parenti, come mia zia. Quindi l’ultima eruzione del Vesuvio fa parte della storia della mia famiglia. La distruzione dell’archivio parrocchiale è stata, poi, una gravissima perdita anche per la mia famiglia, perché molti documenti – come i libri di battesimo e matrimoni – sono andati distrutti e riguardavano anche certe zone di Cercola dove vivevano gli antenati della famiglia di mio padre e che così sono stati inghiottiti dall’oblio…

L’altra tragedia, quella che riguarda il deragliamento di un treno nella stazione di Cercola, pure fa parte della mia famiglia perché mio padre, in quella sciagura, perse una cugina di primo grado, e quindi purtroppo ne ho sentito parlare quando ero bambino. Lo storico Giorgio Mancini parla di questa tragedia nel suo volume intitolato “La taverna della Cerqua. Viaggio lungo quattro secoli nella storia di Cercola” del 2011 (pagine 176).

Un altro episodio che i miei genitori raccontavano riguarda la rappresaglia che i tedeschi fecero il 29 settembre del 1943.

La drammatica rappresaglia eseguita il 29 settembre del 1943 dalle truppe tedesche, fu invece la violenta “risposta” ad alcune azioni partigiane: sia a Ponticelli (quartiere periferico della città di Napoli) che in diverse strade del comune di Cercola, i soldati germanici catturarono molti passanti fucilandoli sul posto. In molti casi entrarono anche nelle abitazioni per arrestare a trascinare all’esterno giovani che non avevano alcun legame con i partigiani, per poi ucciderli sulla strada. Tra queste vittime ci furono anche i fratelli Carmine e Giovanni Maione3 che furono catturati in casa mentre si accingevano a pranzare: portati in strada furono uccisi a colpi di mitra alle spalle. Quando il padre dei due giovani seppe della tragica uccisione dei propri figli si procurò un carretto e con questo trasportò le salme al cimitero. Ancora fino a qualche anno fa mio padre, che all’epoca aveva circa tredici anni, si ricordava di quest’uomo che tirava il carretto con i cadaveri dei figli. Anche il mio nonno materno dovette nascondersi per evitare di essere catturato e ucciso dai tedeschi.

Melania: La masseria Rutiglia, che si trova nel comune di Cercola sul confine con la frazione di San Gennariello di Pollena Trocchia, è attualmente abbandonata. Quali sono le tue considerazioni?

Carlo: Purtroppo è abbandonata e versa in uno stato di degrado, e come tutti sappiamo non è l’unica masseria che si trova in queste condizioni. Capisco che recuperare certi edifici dei secoli scorsi è oneroso e soprattutto si rivela difficile gestirli e utilizzarli, perché hanno delle caratteristiche architettoniche che non corrispondono, ad esempio, alle esigenze abitative di tante persone. Però è proprio in questi edifici che ci sono le nostre radici: è lì che hanno vissuto tante famiglie che ci hanno preceduto ed è rivalutando questi edifici che possiamo riscoprire i valori fondanti della nostra società: la civiltà contadina si basava sulla condivisione, sul valore dell’onestà, sul mantener fede alla parola data e noi abbiamo bisogno di riscoprire questi valori


Melania: A quale categoria di lettori è indirizzato questo tuo volume?

Carlo: È un racconto che si può proporre a tutti: dagli otto anni in su. Ad una mia zia, sorella di mia madre, è stato letto che aveva novant’anni.

Un’insegnante e scrittrice trevigiana, Fanny Grespan, lo ha definito “un racconto dal sapore antico, che riporta a un tempo genuino e a un'atmosfera che è appartenuta a tutti noi, figli e nipoti della guerra e della povertà, di un mondo in cui nemmeno una tazza di latte poteva essere data per scontata”. E penso che questa sia la definizione migliore per questo libretto, adatto ai lettori di tutte le età, e soprattutto destinato a tutte le persone che non vogliono vivere la tragedia della guerra, come invece l’hanno dovuta vivere i nostri genitori e i nostri nonni e come, purtroppo, stanno vivendo i bambini di diverse aree della Terra.

 Melania: Progetti futuri?

Carlo: Premetto che nel 2009 ho pubblicato in un volume una lunga intervista al cappellano del carcere di Treviso: è stato un libro che è stato diffuso attraverso tanti incontri organizzati presso biblioteche pubbliche e parrocchie, e in questo volume si parlavano delle condizioni di vita dei reclusi. Grazie anche a questo libro le condizioni di vita dei detenuti sono migliorate, e allora col cappellano del carcere ho deciso di preparare una nuova edizione per evidenziare i miglioramenti. Ecco questo è uno dei progetti che porterò avanti nei prossimi mesi...

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1 Ancora oggi non si conosce l’esatta dinamica dello sviluppo dell’incendio ovvero se si trattò di un evento doloso o accidentale.

2 La tragedia fu, in particolare, riportata da Roberto Ciuni, giornalista de “Il Mattino”.

3 Vedi Giorgio Mancini, “La taverna della Cerqua. Viaggio lungo quattro secoli nella storia di Cercola”, Il Quartiere edizioni 2011, p. 435.

Per reperire il volume "La bambina della masseria Rutiglia" cliccare su La bambina della masseria Rutiglia

Per informazioni sui libri di Carlo Silvano cliccare su Libri di Carlo Silvano

giovedì 30 dicembre 2021

Palazzo Valente

Pollena Trocchia - Qui di seguito propongo alcune foto di ciò che oggi resta di palazzo Valente nell'omonima via a Pollena Trocchia. La prima foto riguarda l'ingresso alla cappella intitolata a san Michele arcangelo ubicata nel palazzo.

Alcune notizie sulla cappella di palazzo Valente si possono reperire dal volume "La comunità di Pollena dal 1760 al 1819. Note di storia sociale e religiosa" (pagine 37-41).

Per informazioni su questo volume inviare un messaggio di whatsapp al numero 3393410373.







giovedì 9 dicembre 2021

Pollena, la fiaba dell'orco e delle rane


(la copertina della seconda edizione)

La seconda edizione del romanzo breve "La bambina della masseria Rutiglia" è stata arricchita con una fiaba ambientata a Pollena.


L’orco e le rane
dello stagno di Apolline

Si racconta che secoli e secoli fa, nel villaggio di Apolline, alle pendici del monte Somma, vivesse un malvagio orco che era solito andare a pescare rane e anguille in uno stagno che si era formato ricevendo l’acqua da un torrente che scendeva lungo il vallone del Carcavone.
Gli abitanti del villaggio chiamavano il torrente col nome “Veseri”, mentre lo stagno veniva indicato col nome di “Santa Giovanna d’Arco” perché lì c’era una cappella intitolata alla giovane e coraggiosa santa.
Il “Veseri” scendeva tra mille anse fino a Volla e poi, imitando il fiume “Sebeto”, raggiungeva il mare per gettarsi nel golfo di Napoli.
Lo “Stagno di Santa Giovanna d’Arco” era circondato da canneti e a far da cornice a questo specchio d’acqua c’erano anche alberi come limoni, aranci e albicocchi.
Un giorno, come era sua abitudine, l’orco andò a pescare e quando rientrò nella sua tetra casa aveva una cesta con decine e decine di rane impaurite e tremanti perché consapevoli del proprio destino: esse, infatti, sapevano che a breve sarebbero state uccise, sviscerate, cotte e mangiate dal terribile orco.
Le rane si erano raccolte al centro della cesta fabbricata con canne, e si consolavano l’una con l’altra augurandosi una vita migliore nell’aldilà.
Altre rane si guardavano attorno per cercare una via di fuga da indicare pure alle compagne e così sfuggire tutte al loro terribile destino.
Il malvagio orco, quando ebbe fame, si avvicinò alla cesta e dopo aver guardato attentamente le sue prede che si abbracciavano tra loro per farsi coraggio, disse:
“Quelle che tra voi si sposteranno sul lato sinistro della cesta saranno uccise, fritte e mangiate, mentre quelle che si sposteranno sul lato destro della cesta, saranno uccise, bollite e mangiate”.
All’udire queste terribili parole le rane spaventate si divisero: alcune si spostarono sul lato sinistro, mentre altre se ne andarono sul lato destro della cesta, e così, dopo aver formato due distinti gruppi, subito iniziarono a insultarsi a vicenda:
“Siete delle rane stolte – gridarono quelle che stavano a destra – perché tra poco sarete uccise, sventrate e fritte!”.
“Noi non siamo stolte – rispondevano le rane destinate ad essere fritte –, ma voi siete delle stupide rane, perché presto sarete uccise, bollite e mangiate”.
(la copertina della prima edizione)

L’orco, intanto, dopo aver preparato tutto l’occorrente per friggere e per bollire le sue vittime, si avvicinò alla cesta e sorrise di gusto e con cattiveria all’udire gli insulti che le rane si scambiavano, e mentre esse continuavano a disprezzarsi e ad augurare la peggior morte alle rivali, l’orco ora prendeva una rana da un gruppo ora dall’altro e con calma le uccideva per poi sventrarle e qualcuna la bolliva immergendola in un grande calderone, qualcun’altra la friggeva nell’olio di un tegame.
Anche le ultime due rane, prima di finire rispettivamente una nel tegame, l’altra nel calderone, si congedarono rivolgendosi [continua]...

Per informazioni sul libro cliccare sul link che segue: La bambina della masseria Rutiglia

sabato 20 novembre 2021

Angela Rosauro, Vi presento la bambina della masseria Rutiglia

 

(copertina seconda edizione)

  Recentemente ho pubblicato la seconda edizione del romanzo breve intitolato "La bambina della masseria Rutiglia", ambientato durante il Secondo conflitto mondiale nei comuni vesuviani di Pollena Trocchia e Cercola.

 Rispetto alla prima edizione (che resta in commercio a disposizione dei lettori), la nuova edizione è arricchita con una prefazione scritta dalla professoressa Angela Rosauro (Dirigente scolastico dell’Istituto comprensivo di Pollena Trocchia), ha un nuovo capitolo e una nuova veste tipografica.

La protagonista di questo breve romanzo è una bimba curiosa: i suoi occhi si soffermano sulle immagini familiari e della propria comunità di appartenenza, che rievocano i momenti più importanti della propria infanzia vissuta nella campagna vesuviana, durante gli anni più cruenti del conflitto mondiale, con le rappresaglie dei nazisti, l’affondamento nel porto di Napoli della motonave “Caterina Costa”, l’eruzione del Vesuvio del 1944 e la sciagura ferroviaria verificatasi nella stazione di Cercola il 21 dicembre del 1941.

Le pagine di questo volume non riportano una storia biografica, bensì aneddoti della vita della protagonista, Carmelina, e anche di alcuni personaggi locali, che mi hanno ispirato e che ho voluto dar loro una dimensione concreta, in un passato che è arrivato a noi solo attraverso i ricordi.

Qui  di seguito propongo la prefazione alla seconda edizione a firma della prof. Angela Rosauro.

 

Prefazione

di Angela Rosauro1



Si cammina nella vita con la mano nella mano di una persona; poi, a un tratto, questa persona scompare là dove non c’è un dove, e tu stesso ti fermi davanti a quell’abisso e ci guardi dentro. E io ci ho guardato” (da “Guerra e pace” di Lev Tolstoj).


E Carlo Silvano ha affondato lo sguardo nello spazio inerte di quella inappellabile distanza accettandone la sfida, e con la mitezza che lo contraddistingue ha saputo riconoscere quelle orme profonde, impresse nella memoria lasciando loro il compito di condurlo e di condurci lungo il tragitto: è appena l’alba e Carmelina s’incammina lungo il viottolo che la condurrà a casa, con il suo fiasco di latte, intenta a non inciampare nelle tante buche e pozzanghere che le si parano innanzi. Questa è l’immagine che ci offre l’autore nell’incipit e che sussume motivazioni, sentimenti e significati di questo lavoro: l’alba, quel breve momento in cui il cielo scolora e annuncia il nuovo giorno, è la cornice temporale ideale ad accompagnare il cammino della piccola protagonista. Il viottolo e il paesaggio che attraversa così ben descritti sono arricchiti di particolari che ne vivacizzano l’andatura lasciandone trasparire le bellezze e le difficoltà: le buche alle quali porre attenzione, ma anche i dolci frutti e le colorate corolle dei fiori non sono certo meri orpelli, quanto piuttosto elementi animati che la bambina e poi donna incontra, evita, raccoglie, vive lungo il corso della vita. Il sentimento che pervade lo sguardo dell’autore è il senso di gratitudine filiale per quel latte, segno inequivocabile di nutrimento e vita, trasportato dalla bimba nel ritorno a casa, metafora di un sentimento materno di protezione e cura, di cui egli ne è stato amorevole testimone. Tutto il racconto è un susseguirsi d’immagini e ricordi, dove le coordinate spazio-temporali si distanziano pur conservando perimetri riconoscibili: la masseria assieme a poche altre ormai, sono ancora lì con le loro strutture tipiche che ci raccontano di un tempo scandito dal susseguirsi delle stagioni che disciplinavano il lavoro dei campi; sono lì, testimoni di una vita sociale molto lontana dai modelli post moderni in cui le generazioni successive si sono trasformate; vita semplice, di persone semplici, riunite intorno al nucleo familiare dove ogni elemento svolgeva il proprio ruolo e mansione in funzione della sopravvivenza e crescita della famiglia; sono lì, qualcuna, tra le tante ormai aggredite dal tempo e dall’incuria, ancora presenta le ferite di una guerra terribile che raggiunse anche i luoghi più reconditi senza risparmiare alcunché, e soprattutto lasciando ferite ben più profonde negli animi di coloro che ebbero la sventura di viverla. 

 

(copertina dalle prima edizione)

Carmelina è una bambina di guerra come le tante delle guerre lontane dei nostri tempi che ci commuovono per la loro indifesa innocenza violata dalle brutture e dalle violenze. Carmelina è una di quelle: bambina costretta a diventare grande prima del tempo, a fare i conti con il pericolo e la morte prima ancora di conoscere la vita o meglio avendo conosciuto solo quella, quella è la sua vita. Impara presto Carmelina come tutti i bambini di guerra, impara che c’è un prima e c’è un dopo; c’era la scuola con la maestra e le sue dolci caramelle di more, c’era il pane impastato dalla mamma che bastava tutta la settimana, c’era Luigi che per finta spaventava le ragazzine e poi, pur nella povertà, quella semplice vita ad un tratto era sparita, tutto era cambiato. Era arrivata la guerra, non quella ascoltata per radio o dalla voce di qualche adulto che “capiva”, era arrivata la guerra quella vera, quella dei morti e della fame che non fa sconti a nessuno. Il dopo di Carmelina duro e triste come quello di tanti altri, era fatto di fame, quella che con i suoi morsi non la lasciava dormire, di fatica per raccogliere tutti i giorni rape nella terra gelida di quell’inverno rigido, di nostalgia per quei giorni allegri di scuola che ora apparivano lontani come sogni. Ora la sua vita è questo: portare il latte a casa al più presto, mangiare, riscaldarsi, sopravvivere…

“…lei sapeva già cosa l’attendeva: appena sarebbe entrata in casa avrebbe scorso sua madre intenta a lavorare con solerzia stando seduta davanti alla macchina da cucire, mentre suo padre con lo sguardo preoccupato, stava in piedi, davanti alla finestra a scrutare il cielo che prometteva una giornata di pioggia e anche una giornata senza lavoro e senza paga… le sue sorelle che si sarebbero alzate tutte dai loro giacigli per andarle incontro, per bollire il latte e fare colazione stando attorno al povero tavolo l’una stretta all’altra… La madre, intanto, avrebbe continuato a lavorare con gli occhi fissi sull’ago e sul cotone e il padre a scrutare e a interrogare un cielo che non prometteva nulla di buono…”.

Con poche frasi, leggere pennellate l’autore ci prende per mano e ci lascia entrare con la piccola Carmelina nella sua umile casa: possiamo vedere le mura disadorne appena illuminate dalla luce fredda di un’alba piovosa, possiamo sentire il freddo di quell’inverno del 1943 che avvolge e intirizzisce l’intera famigliola, possiamo ascoltare il fragore tonante del cannone antiaereo, emblema di una guerra ancora lunga da finire, possiamo avvertire la silenziosa dignità di un popolo che attraverserà la miseria e la disumanità di una guerra orribile per consegnare ai suoi figli il messaggio della speranza della pace fra gli uomini. “I bambini che hanno visto la guerra sono l’unica speranza di pace” (Karol Wojtyla) e la bambina della masseria Rutiglia ancora oggi ci parla e ci rammenta il nostro compito irrinunciabile di sentinelle della memoria perché nessun bambino, nessuno più abbia da sopportare tali atrocità.



Pollena Trocchia,

ottobre 2021



1 Dirigente dell’Istituto comprensivo di Pollena Trocchia (Napoli).

 

Per informazioni sulle due edizioni del romanzo breve "La bambina della masseria Rutiglia" cliccare su  Libri di Carlo Silvano