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Massa di Somma: il pubblico presente alla presentazione e sul palco da sx verso dx: Carlo Silvano, il sindaco di Massa Gioacchino Madonna, l'assessore Clara Ilardi, la conduttrice Melania Mollo e il poeta Giuseppe Vetromile)
Massa di Somma - Nell'ambito della quarta edizione di AperiCult stasera nella villa comunale "Meravilla" di Massa di Somma è stato presentato il racconto "La bambina della masseria Rutiglia". A condurre la serata Melania Mollo, con la presenza del sindaco Gioacchino Madonna, dell'assessore Clara Ilardo e del poeta Giuseppe Vetromile.
Ecco una sintesi della serata.
Melania Mollo: Carlo Silvano, che legame hai con Massa di Somma ?
Carlo Silvano: Dal
1963 al 1966 la mia famiglia risiedeva in questa zona: per l’anagrafe
sono nato nel comune di Cercola, ma in realtà sono nato nel 1966 in
un’abitazione a pochi metri da questa villa, quando Massa di Somma
era una frazione del comune di Cercola, e sono stato battezzato nella
chiesa parrocchiale della Madonna Assunta. Poi, dopo la mia nascita,
la mia famiglia si trasferì a Pollena, dove tuttora risiede mio
padre. Qui a Massa di Somma, comunque, ho ancora tanti parenti. Il
mio legame con Massa di Somma è quindi forte e se per l’anagrafe
sono un cercolese, nei fatti sono un massese.
Melania: Stasera ci parlerai del tuo racconto intitolato “La bambina della
masseria Rutiglia” scritto e pubblicato nel 2020; puoi raccontarci
qualcosa dei libri che hai pubblicato prima di questa data?
Carlo: Ho
iniziato a scrivere quando avevo circa vent’anni e il primo romanzo
che ho pubblicato si intitola “Il boiaro”, è ambientato durante
la Rivoluzione russa del 1917 ed è stato proposto al pubblico in tre
edizioni.
Un
volumetto
che pure ha trovato una certa diffusione tra il pubblico, l’ho
scritto nei primi anni Novanta, e riguarda il
fenomeno criminoso dell’usura e l’impegno
che padre Massimo Rastrelli profuse per
aiutare le vittime degli strozzini.
Un
altro libretto a cui sono molto legato riguarda la costruzione della
chiesa parrocchiale di Pollena, che fu edificata dal 1760 al 1819. In
questo libretto parlo anche dei fratelli Tommaso ed Elia Garone: il
primo fu parroco di Massa di Somma tra la fine del Settecento e
l’inizio dell’Ottocento, il secondo fu parroco di Pollena.
Provenivano da Buonabitacolo, un comune del salernitano e nel bene e
nel male fecero molto per le nostre comunità parrocchiali.
Probabilmente
il detto popolare “Massa, Pollena e Trocchia: tre paesi una
parrocchia”, risale agli inizi dell’Ottocento, quando non c’era
ancora stata l’unificazione dei casali di Trocchia e Pollena,
avvenuta nel 1811, e quando per un certo periodo di tempo i fratelli
Tommaso ed Elia seguivano - a causa dell’assenza del parroco -
anche la comunità parrocchiale di Trocchia. Tommaso ed Elia furono
due fratelli molto uniti tra loro e quindi si ritrovarono insieme ad
amministrare le tre parrocchie che, in effetti, e per un certo
periodo, erano diventate sotto la loro guida pastorale un’unica e
grande parrocchia che abbracciava i casali di Massa, Pollena e
Trocchia.
Oltre
a questi volumi ho pubblicati libri che riguardano la realtà
carceraria di Treviso e il mobbing, ed altri romanzi. In sintesi avrò
pubblicato oltre venti titoli.
Melania: Dove e quando è ambientato “La bambina della masseria
Rutiglia”?
Carlo: La
masseria Rutiglia si trova nel comune di Cercola al confine col
comune di Pollena Trocchia, e precisamente con la frazione di San
Gennariello. È un lungo racconto ambientato durante la fase più
cruenta della Seconda guerra mondiale, quando i tedeschi occupavano
la Penisola italiana e i bombardamenti aerei degli alleati si
intensificarono. Non è un racconto biografico, però quasi tutti i
capitoletti sono stati scritti prendendo spunto da un fatto realmente
accaduto nella famiglia di mia madre oppure nella comunità locale,
come la rappresaglia dei tedeschi del 29 settembre del 1943 che causò
tantissime vittime civili tra Ponticelli e Cercola, lo scoppio e
l’affondamento nel porto di Napoli della motonave “Caterina
Costa”, il deragliamento di un treno nella stazione di Cercola il
21 dicembre del 1941 e l’ultima eruzione del Vesuvio.
Melania: Cosa ti ha spinto a scrivere questo racconto?
Carlo: L’ho
scritto nei primi mesi della nota pandemia del covid: con mia moglie,
i miei figli e mia suocera ero recluso in casa, e tra un lavoretto e
l’altro, come tinteggiare le pareti, ho scritto i capitoletti di
questo lungo racconto. All’inizio ciò che mi spingeva a scrivere
queste pagine era il desiderio di lasciare ai miei tre figli, che
sono nati e vivono a Treviso, il ricordo della nonna paterna e anche
quello di conoscere le proprie origini in modo da avere un legame
profondo con la nostra terra. Poi una volta terminato il testo, e
rileggendolo, ho pensato che far conoscere questa storia potesse
essere utile per comprendere cosa provano i bambini che vivono la
terribile esperienza della guerra, con le sue distruzioni e con le
sue vittime. E così ho deciso di pubblicarlo.
Melania: I personaggi che “popolano” questo racconto sono realmente
esistiti: oltre a tua madre, ad esempio, ci sono le tue zie e i tuoi
nonni materni. C’è
anche una persona che molti anziani, non solo di Pollena ma anche di
Massa, ricordano ancora oggi. Vi leggo un brano tratto dal racconto:
A
fine ottobre, lungo la via, i fanciulli si fermavano ora per
raccogliere dei fiorellini all’ombra delle siepi, ora per prendere
le ultime more nere che, in estate, erano maturate tra le aguzze
spine dei rovi, e che portavano alla loro maestra che era sempre
gentile e sorridente. La maestra ringraziava e sistemava i fiorellini
in un vaso bianco con delle linee azzurrine davanti alla statuina
della Madonna che aveva in aula col compito di proteggere tutti i
bambini dalle bombe che gli aerei lasciavano cadere. Le more, invece,
la maestra se le portava a casa e quando il giorno dopo ritornava a
scuola aveva, per ogni allieva, un dolcetto o una morbida caramella
al sapore di mora.
Le
bambine del borgo erano felici di averla come maestra e di buon
mattino, anche con la pioggerellina e col freddo che non facevano
alcuna fatica a passare attraverso i loro poveri vestiti per posarsi
sulla pelle di corpicini che mai erano stati floridi, si sarebbero
fermate più tempo a raccogliere fiori dal ciglio della strada oppure
more a ottobre o, ancora, nespole a dicembre da un albero che aveva i
rami che cascavano sulla pubblica via, ma capitava, e anche spesso,
che da dietro un rovo o da un possente tronco di pioppo apparisse
all’improvviso Luigi, un giovanotto del villaggio che andava in
giro sempre scalzo, e che lanciava grida ed emetteva urla
indescrivibili: i bambini, allora, si davano alla fuga. I più
piccoli si spaventavano e correvano nella stessa direzione dei più
grandi, ma questi ultimi fingevano solo di essere terrorizzati perché
sapevano che Luigi non voleva e non era capace di fare del male a
nessuno, e anche perché questo ragazzone meritava rispetto: non
sapeva parlare, non era mai andato a scuola e aveva una sorella,
semplice e buona, che piangeva ogni volta che qualcuno prendeva in
giro suo fratello. Loro, i bambini, non volevano però che lei
piangesse e allora evitavano di essere sgarbati con quel giovanotto
incapace di parlare.
Col
passare degli anni Luigi sarebbe diventato adulto e col trascorrere
del tempo sarebbe calato il numero delle persone che si divertivano a
prenderlo in giro e a trattarlo male: con la sua infermità si
sarebbe guadagnato la stima di tutto il paese, perché – e nessuno
ha mai capito come facesse – riusciva a sapere chi fosse morto al
semplice suono delle campane e a recarsi al funerale partecipando, e
calzando delle scarpe solo per questo genere di occasioni, al corteo
funebre che partiva dalla casa del defunto per arrivare in chiesa e
dalla chiesa al camposanto. Luigi, con le sue scarpe sempre lucidate
di un nero vivo, se ne stava in fondo al corteo con la sua semplicità
e riservatezza, e anche la guardia municipale lo rispettava
salutandolo con serietà e con un leggero inchino del capo. A Luigi
non importava chi fosse il defunto: benestanti o poveri, persone
conosciute o meno, giovani o anziani, buone o cattive che fossero
state in vita, tutti quelli che in paese morivano ricevevano il suo
commosso omaggio.

Melania: In
questo racconto, però, hai dedicato dello spazio anche a certe
tragedie, come, appunto, l’affondamento nel porto di Napoli della
nave “Caterina Costa”…
Carlo: Sì.
Ero bambino quando trovandomi davanti al Castel Nuovo di Napoli
chiesi a mia madre cosa fossero quelle “cicatrici” che, ancora
oggi, si possono vedere su una facciata del castello, e mia madre mi
disse che risalivano
alla Seconda guerra mondiale e che erano state causate dallo scoppio
di una nave. In effetti, pochi
anni fa, facendo delle
ricerche su internet, ho conosciuto questa tragedia che nella Nota
conclusiva ho così riassunto:
L’esplosione
della motonave da carico “Caterina
Costa”
avvenne il 28 marzo del 1943: a bordo c’erano sia militari italiani
che tedeschi ed erano state imbarcate anche 900 tonnellate di
munizioni, carri armati e cannoni a lunga gittata. La motonave doveva
far parte di un convoglio diretto a Biserta, in Tunisia, ma a bordo
si verificò un incendio
che non si riuscì a domare: verso le ore 17.39 le fiamme causarono
una devastante esplosione uccidendo 549 persone; un centinaio,
invece, furono i dispersi e circa tremila i feriti.
Secondo una versione ufficiosa i morti furono circa 600. L’esplosione
fu così violenta da allarmare anche gli abitanti dei comuni di
Cercola e Pollena Trocchia. Anche mio padre ha spesso parlato della
tragedia per aver udito, mentre da chierichetto partecipava alla via
Crucis
col proprio parroco, lo scoppio e per aver sentito diverse
testimonianze sulla strage dei militari imbarcati sulla motonave.
Melania: Ci sono due episodi che troviamo nel tuo racconto: il primo
riguarda l’ultima eruzione del Vesuvio che, purtroppo, distrusse
anche l’archivio parrocchiale di Massa di Somma, il secondo il
deragliamento di un treno passeggeri della Circumvesuviana nella
stazione di Cercola. Riguardo all’eruzione del Vesuvio, nel
terzo capitolo alle pagine 21 e 22 della prima
edizione, hai scritto:
Carmelina
continuava a camminare lungo il viottolo della masseria “Rutiglia”
e davanti a lei, lontano circa sei chilometri in linea d’aria, dal
cono del Vesuvio si alzava verso il cielo il pinnacolo di fumo: a
quella scena lei era fin troppo abituata e non poteva sapere che solo
nel giro di qualche anno, dal 18 al 24 marzo del 1944, dalla bocca di
quel vulcano sarebbe uscito anche il magma incandescente e
devastatore di contrade e chiese, come quella di “Maria Assunta in
Cielo” a Massa di Somma. Nel marzo del 1944 la lava, lenta ma
inarrestabile, come un fiume avrebbe sommerso terre coltivate,
incendiato case coloniche e senza provare alcun sentimento religioso
avrebbe poi distrutto anche una chiesa, facendo bruciare l’intero
archivio parrocchiale e cancellando per sempre la memoria di un borgo
con secoli e secoli di vita e di storia.
In
futuro, proprio sul fiume di lava solidificatasi nel 1944, Carmelina
diventata donna e sposa, avrebbe vissuto per circa tre anni in una
casa con i suoi primi cinque figli. Tutto questo, però, lei ora
bambina non poteva nemmeno immaginarlo…
Carlo: Come
ho detto prima, sono nato in un’abitazione qui a pochi metri. Pochi
giorni dopo la mia nascita la mia famiglia si è trasferita a
Pollena, e quindi non ho nessun ricordo della casa dove sono nato.
Però mia madre spesso raccontava di questi pochi anni
vissuti qui, perché
qui c’è la casa dei nonni materni e ci sono parenti, come mia zia.
Quindi l’ultima eruzione del Vesuvio fa parte della storia della
mia famiglia. La distruzione dell’archivio parrocchiale è stata,
poi, una gravissima perdita anche per la mia famiglia, perché molti
documenti – come i libri di battesimo e matrimoni – sono andati
distrutti e riguardavano anche certe zone di Cercola dove
vivevano
gli antenati della famiglia di mio padre e
che così sono stati
inghiottiti dall’oblio…
L’altra
tragedia, quella
che riguarda il deragliamento di un treno nella stazione di Cercola,
pure fa parte della mia famiglia perché mio padre, in
quella sciagura, perse
una cugina di primo grado, e quindi purtroppo ne ho sentito parlare
quando ero bambino. Lo storico Giorgio Mancini parla di questa
tragedia nel suo volume intitolato “La
taverna della Cerqua. Viaggio lungo quattro secoli nella storia di
Cercola” del 2011
(pagine 176).
Un
altro episodio che i miei genitori raccontavano riguarda la
rappresaglia che i tedeschi fecero il 29 settembre del 1943.
La
drammatica rappresaglia eseguita il 29 settembre del 1943 dalle
truppe tedesche, fu invece la violenta “risposta” ad alcune
azioni partigiane: sia a Ponticelli (quartiere periferico della città
di Napoli) che in diverse strade del comune di Cercola, i soldati
germanici catturarono molti passanti fucilandoli sul posto. In molti
casi entrarono anche nelle abitazioni per arrestare a trascinare
all’esterno giovani che non avevano alcun legame con i partigiani,
per poi ucciderli sulla strada. Tra queste vittime ci furono anche i
fratelli Carmine e Giovanni Maione
che furono catturati in casa mentre si accingevano a pranzare:
portati in strada furono uccisi a colpi di mitra alle spalle. Quando
il padre dei due giovani seppe della tragica uccisione dei propri
figli si procurò un carretto e con questo trasportò le salme al
cimitero. Ancora fino a qualche anno fa mio padre, che all’epoca
aveva circa tredici anni, si ricordava di quest’uomo che tirava il
carretto con i cadaveri dei figli. Anche il mio nonno materno dovette
nascondersi per evitare di essere catturato e ucciso dai tedeschi.
Melania: La masseria Rutiglia, che si trova nel comune di Cercola sul confine
con la frazione di San Gennariello di Pollena Trocchia, è
attualmente abbandonata. Quali sono le tue considerazioni?
Carlo: Purtroppo
è abbandonata e versa in uno stato di degrado, e come tutti sappiamo
non è l’unica masseria che si trova in queste condizioni. Capisco
che recuperare certi edifici dei secoli scorsi è oneroso e
soprattutto si rivela difficile gestirli e utilizzarli, perché hanno
delle caratteristiche architettoniche che non corrispondono, ad
esempio, alle esigenze abitative di tante persone. Però è proprio
in questi edifici che ci sono le nostre radici: è lì che hanno
vissuto tante famiglie che ci hanno preceduto ed è rivalutando
questi edifici che possiamo riscoprire i valori fondanti della nostra
società: la civiltà contadina si basava sulla condivisione, sul
valore dell’onestà, sul mantener fede alla parola data e noi
abbiamo bisogno di riscoprire questi valori
Melania: A quale categoria di lettori è indirizzato questo tuo volume?
Carlo: È
un racconto che si può proporre a tutti: dagli otto anni in su. Ad
una mia zia, sorella di mia madre, è stato letto che aveva
novant’anni.
Un’insegnante
e scrittrice trevigiana, Fanny Grespan, lo ha definito “un racconto
dal sapore antico, che riporta a un tempo genuino e a un'atmosfera
che è appartenuta a tutti noi, figli e nipoti della guerra e della
povertà, di un mondo in cui nemmeno una tazza di latte poteva essere
data per scontata”. E penso che questa sia la definizione migliore
per questo libretto, adatto ai lettori di tutte le età, e
soprattutto destinato a tutte le persone che non vogliono vivere la
tragedia della guerra, come invece l’hanno dovuta vivere i nostri
genitori e i nostri nonni e come, purtroppo, stanno vivendo i bambini
di diverse aree della Terra.
Melania: Progetti futuri?
Carlo: Premetto
che nel 2009 ho pubblicato in un volume una lunga intervista al
cappellano del carcere di Treviso: è stato un libro che è stato
diffuso attraverso tanti incontri organizzati presso biblioteche
pubbliche e parrocchie, e in questo volume si parlavano delle
condizioni di vita dei reclusi. Grazie anche a questo libro le
condizioni di vita dei detenuti sono migliorate, e allora col
cappellano del carcere ho deciso di preparare una nuova edizione per
evidenziare i miglioramenti. Ecco questo è uno dei progetti che
porterò avanti nei prossimi mesi...
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