sabato 19 marzo 2011

Da Pollena a San Fior per discutere di mobbing

San Fior (Treviso) - Lo scorso 16 marzo sono stato a San Fior, in provincia di Treviso, per partecipare ad un incontro culturale organizzato dall'Amministrazione comunale (Pdl - Lega nord) su "Mobbing e Lavoro", e dedicato alla presentazione di un libro intitolato "Un lavoratore di troppo. Storie di mobbing nella Marca trevigiana", che ho scritto e pubblicato insieme all'amico, e conterraneo, avvocato Agostino La Rana.
Il tavolo dei relatori era stato addobbato con le bandiere nazionali e, guardandole, ho provato una strana emozione: quella di essere un italiano, un campano che ha lasciato la propria terra per trasferirsi in Veneto e, in questa regione, chiamato a dare il proprio contributo per fare cultura e promuovere la solidarietà tra i colleghi sul posto di lavoro. In effetti, il libro pubblicato con Agostino parla di un problema molto sentito nella provincia di Treviso e, a scriverlo, sono stati due napoletani, cioè io e Agostino. Non solo! Per la pubblicazione di questo libro è intervenuta una piccola casa editrice partenopea, ovvero Ogm editore di Cercola (comune dove sono nato!).

Pensavo a queste cose mentre gli altri relatori facevano i loro interventi e poi, quando è arrivato il mio turno, ho posato per un attimo prima lo sguardo su un tricolore, e poi sul pubblico trevigiano che avevo davanti: è stato proprio un attimo... e fiero delle mie origini campane ho iniziato a parlare. Alla fine del mio intervento il pubblico presente in sala (circa 170 persone, per lo più avvocati) ha applaudito con calore, ma io, in quel momento, col tricolore che avevo dinanzi, ero intento a ricordare il volto di tutte le persone che ho conosciuto e stimato a Pollena, paese dove ho vissuto per trentadue anni e dove ho imparato il senso dell'onestà e della legalità.

Altre info nel blog http://mobbingtreviso.blogspot.com/

domenica 2 gennaio 2011

Continua il mio soggiorno "pollenatrocchiese" con una giornata trascorsa in famiglia a Montefalcione, in provincia di Avellino.
Dal 31 dicembre 2010 al 7 gennaio 2011 sono a Pollena!

Il primo gennaio da don Michele Esposito, parroco ai Vergini di Napoli, quartiere storico di Napoli. In occasione delle feste natalizie è stato realizzato - all'interno della chiesa - un presepe molto particolare: come grotta è stato allestito un faro.

martedì 27 luglio 2010

Consumiamo miele italiano

POLLENA TROCCHIA - Le due foto che inserisco in questo post riguardano un apiario sito nel comune di Cercola e gestito da un apicoltore residente a Pollena.

Non entro nel dibattito tra chi privilegia il miele allo zucchero, ma voglio solo sottolineare che è importante consumare miele prodotto in Italia, dove i controlli delle Asl sono rigorosi a vantaggio della salute. Evitiamo soprattutto di consumare miele importato da quei Paesi stranieri che, troppo spesso, contengono sostanze nocive.

lunedì 17 maggio 2010

Don Luigi Storino, un parroco tra la gente

A circa 35 anni dalla scomparsa mi piace ancora una volta ricordare don Luigi Storino, parroco a Pollena dal 1953 al 1975.
Nel 1997 ebbi modo di scrivere diversi articoli ("Il giornale di Napoli", "Metropolis" ed "Ermes") dedicati a questo sacerdote, auspicando anche che gli venisse intitolata una strada comunale.
E' stato il parroco della mia infanzia!
Nato a Cercola il 2 giugno 1918, don Luigi maturò la sua vocazione sacerdotale con don Eduardo Fasano ed entrò in seminario dove fu seguito da don Vincenzo Malasomma. Don Luigi fu consacrato sacerdote il 29 ottobre 1944 e fu subito inviato a Volla come parroco nella chiesa dell'"Immacolata e San Michele". In seguito fu nominato parroco della comunità di San Giacomo apostolo di Pollena (17 gennaio 1954). In questa parrocchia don Luigi si impegnò e valorizzò l'adorazione Eucaristica, occupandosi soprattutto dell'apostolato della preghiera e dell'Azione cattolica.
Tra gli episodi che segnarono il ministero pastorale di don Luigi Storino a Pollena, vanno ricordate due sciagure aeree verificatesi sul monte Somma: la prima avvenne il 15 febbraio 1958, la seconda si consumò la notte di Pasqua del 1964. In entrambi i casi, tutti i passeggeri dei velivoli morirono.
Non furono poche le difficoltà che don Luigi dovette affrontare a Pollena per esercitare il suo ministero pastorale: operò in una parrocchia che sapeva certamente custodire le tradizioni e i valori umani, ma era pure una comunità arretrata sul piano sociale ed economico. Nonostante le varie difficoltà di natura pastorale, don Luigi seppe comunque conquistarsi la stima dei pollenesi essendo una persona "di tratto gentile, di poche parole, cordiale e amico con tutti" ("Ianuarius", novembre 1975, p. 460).
Don Luigi morì a Pompei dove il 13 novembre del 1975 si era recato con alcuni fedeli in occasione del rientro dell'immagine della Vergine.

Qui di seguito una breve rassegna stampa di articoli pubblicati nel 1997.




domenica 7 giugno 2009

Da Melbourne un sogno per Pollena Trocchia

Fino a 19 anni è vissuto a Pollena Trocchia, in provincia di Napoli, poi, pur avendo dal 1979 al 1984 casa nel suo paese di origine, ha iniziato a lavorare altrove e dal 1987 risiede a Melbourne, anche se negli ultimi anni vive a cavallo tra l'Australia, Buenos Aires e l'Italia. Stiamo parlando del giornalista Rosario Scarpato che lavora come produttore televisivo e, fino a qualche tempo fa, è stato impegnato pure come docente universitario. Quest'ultima attività, però, l'ha lasciata perché non gli consentiva di viaggiare così come desiderava. In Italia i programmi di Scarpato vengono trasmessi su Rai Sat e la sua ultima serie si intitola “I viaggi del Goloso Globale” (canale 405 Sky). Siamo riusciti a rintracciare il dottor Scarpato e a rivolgergli alcune domande.
Dottor Scarpato, possiamo iniziare questa intervista con un suo ricordo di bambino che scorazzava libero per le viuzze del borgo di Trocchia? Più che i ricordi di infanzia mi piace ricordare le battaglie "sociali" che abbiamo fatto da adolescenti con un gruppo di amici. Era la nostra maniera per essere liberi. Cose che oggi fanno sorridere, ma che al tempo furono importanti: la bancarella pirata della domenica mattina, davanti alla chiesa, all'uscita della prima messa. Vendevamo di tutto, dalla verdura alle calze di nylon. A prezzo "equo", come si dice oggi. Erano tempi di carovita e noi chiedevamo un mercato settimanale che ancora non c'era a Pollena e che i commercianti, amici dei politici, ostacolavano. Ma anche tante altre cose, come i sit in sui binari della Circumvesuviana perché tutti i treni fermassero anche nella piccola stazione di Guindazzi, ubicata nella frazione di Trocchia, le raccolte di aiuti per terremotati e alluvionati. Tutto al di fuori dei partiti... Fino alle raccolte "differenziate" per finanziarci: volevamo fare una radio libera, nel 1976 credo, una delle prime. E la facemmo, buona parte dei fondi ci vennero dalla gente di Trocchia che ci diede prima cartoni e cartacce, poi stracci e infine rottami.

Palazzo Pistolese (in origine di proprietà della famiglia Seripando)

e la chiesa parrocchiale di Trocchia

Come si chiamava questa emittente? Radio Antenna “Veseri”, come il fiume che un tempo attraversava il territorio comunale di Pollena Trocchia.
Lei, nel 1983, ha pubblicato il volume "Apolline e Trocla" dedicato proprio alla storia e alle tradizioni del suo comune di origine. Di questo libro cosa le è rimasto nel profondo dell'animo? Il nome Pollena Trocchia, a quei tempi - e ancora oggi -, suscitava una specie di ilarità. C'era chi nemmeno credeva che esistesse, quasi fosse il fantomatico Puntillo Superiore del film di Troisi, e il libro servì un poco a fare giustizia. E' vero che un tempo sia Apolline che Trocla erano borghi rurali, ma è anche vero che furono sempre molto vicini a Napoli, come città. Prima di tutto vicini geograficamente (6 km da Ponticelli, ultimo quartiere di Napoli, e 11 Km dal centro) e poi perché per 4-5 mesi all'anno a Pollena Trocchia, dal Settecento fino ai primi del Novecento, venivano a villeggiare decine e decine di famiglie della Napoli bene, con seguito e servitù. Un pezzo di Napoli che si trasferiva annualmente a Pollena Trocchia. E all'occasione venivano anche dei famosi stranieri napoletanizzati, come Gaetano Donizetti, che a Trocchia veniva a soggiornare per il vino e per poter comporre. Cose che "provai" con documenti, dopo la pubblicazione di “Apolline e Trocla”, in un libro a più mani sul grande musicista di origine bergamasca.

Villa Trinchera

Parliamo dell'Australia. Per lei cosa significa vivere in questo "continente"? Io ci andai per vacanza e mi considero ancora in vacanza. Un giorno forse ritornerò, ma difficilmente, in Italia, che pure amo. Melbourne è una città ideale, non avrà il Colosseo, i Faraglioni, la torre di Pisa, ma ha una vita comunitaria e un rispetto per le regole sociali di convivenza senza eguali. Come diceva un mio amico, per vivere bene in Australia, basta poco: rispetta la legge, fatti la doccia tutti i giorni e prova a parlare un po' di inglese. Per questo a Melbourne possono convivere pacificamente 152 differenti gruppi etnici. Un altro mio amico raccomandava di non scrivere mai nelle cartoline, nelle email o nelle lettere a amici e o parenti in Italia, che in Australia si sta bene. Per evitare che ci vogliano venire anche loro.
Ha modo di frequentare altri italiani che vivono in Australia? Non più. Al principio di più, perché parlano una lingua molto vicina alla mia, ma erano e sono molto diversi da me culturalmente. Alcuni hanno lasciato l'Italia 50 anni fa e non sono più tornati. Un gap culturale troppo grande. Frequento invece italiani che sono arrivati di recente per lavoro, e ho amici di tutte le razze: è l'Australia! Negli ultimi due anni sto molto tempo a Buenos Aires e anche lì è la stessa cosa.
In base alla sua esperienza personale, cosa può dirmi dello "stato di salute" delle comunità italiane presenti in Australia? Finiranno per "sciogliersi" in una grande nazione o continueranno a mantenere le proprie caratteristiche? Viviamo, come si dice, in un mondo “glocale” (termine che indica la fusione tra globale e locale, ndr). Il concetto di nazione, di appartenenza si è profondamente modificato. Io mi ritengo un by product dell'era globale (jet, telefono, internet, frequent flyer, abolizione dei visti, ecc.), ma le radici non smettono di essere locali. Parlo di valori, non di folklorismo. La pasta la mangiano più al dente gli australiani che gli italiani d'Australia. E parlo di valori ovviamente italiani. Io non sarò mai Zen, sono cresciuto con modelli attivisti (come il "volli, sempre volli fortissimamente volli" di Alfieri), riesco ancora a guidare - e parcheggiare - a Napoli, mi piace il presepe, amo l'opera. Il mio ideale di comunità sociale, politica ed economica però è l'Australia. Non so se questo equivale a sciogliersi o a perdere identità. Io credo di no. In Australia si vive meglio. E solo questo conta. Il resto, ancora una volta, è folklore (come il "luntane a Napule nun se po' sta"). D'altronde un tempo anche gli italici la pensavano così. I romani scrivevano sulle porte delle città colonizzate: Ubi bene ibi patria. Dove si sta bene, quella è la patria.
Lei certamente ha dei sogni nel cassetto. Almeno uno lo può rendere pubblico in questo blog?
Ogni tanto mi viene voglia di fare qualcosa a Napoli. Che so? Impegnarmi per creare una qualche attrazione culturale o turistica di livello internazionale. Napoli ha tante potenzialità, ma ogni volta che ci provo mi scontro con le stesse cose: la superficialità, il pressapochismo, la corruzione... E quello che più mi indispone che, passano gli anni, e le cose stanno in mano sempre alle stesse persone. Una oligarchia di potere, nei media, nelle istituzioni, nelle imprese, che continua a lamentarsi di tutto, delle carenze della città, della camorra, dimenticando che questa situazione l'ha creata essa stessa. Ah, e parlando di sogni; una volta volevo proporre un Festival Internazionale delle Terre Vulcaniche (natura, gastronomia, arte, ricerca ecc), da fare a Pollena Trocchia. Sì, proprio lì. Una cosa ben fatta, per rilanciare l'immagine di tutta l'area. Quelli a cui l'ho detto mi hanno guardato come se fossi un marziano. (a cura di Carlo Silvano, casilvan[chiocciola]libero.it)

mercoledì 13 maggio 2009

Da Pollena al Vermont: l'avventura umana e professionale di Barbara

Grazie ad internet ho rintracciato una cara amica: ci siamo conosciuti quando da giovani volevamo offrire il nostro “mattone” per costruire una “Pollena” più a misura d'uomo, attraverso le pagine di un giornalino chiamato “Veseri 2000”. In seguito, come altre persone, per motivi di lavoro ci siamo persi di vista. Ora, però, abbiamo ripreso un legame: ho ritrovato Barbara Alfano e, grazie all'intervista che mi ha rilasciato, ho conosciuto e apprezzato tante cose nuove di lei. Pur vivendo in continenti diversi con internet possiamo ritornare a sentirci amici.

Per quanti anni hai abitato a Pollena?
Dalla nascita fino al 1996, quando mi sono trasferita a Napoli.
Da quanto tempo vivi negli Stati Uniti e qual è il tuo lavoro?
Mi sono trasferita negli USA nel 1999, per un dottorato di ricerca in Letterature Comparate. Ora sono docente di Lingua, Letteratura e Cultura Italiane al Bennington College, in Vermont.

Barbara... trasloca

Attualmente che genere di legami hai con la tua comunità di origine?
Torno a Pollena una o due volte all'anno anche per lunghi periodi, da uno a due mesi ogni volta. Non sono legata in nessun altro modo alla comunità se non attraverso la famiglia e gli amici. Sono certamente molto legata al paese stesso, ai luoghi, alle strade, agli odori, ai negozi, alle presenze...

Vivere negli USA tra opportunità lavorative e difficoltà quotidiane. Cosa mi racconti?
La vita qui è talmente diversa che non so da dove cominciare a parlartene...

Prova allora a darmi delle idee, più che dei dettagli.
La vita qui accade, non si ferma. Qui hai degli obiettivi e li raggiungi. Non sei alienato dal tuo lavoro, cominci una vita nuova anche a cinquant'anni. Le possibilità professionali sono quelle che concedi a te stesso: nessuno ti blocca, né ti spinge se non ti muovi da te. Qui la diversità è reale: in questo momento ho quattro studenti davanti a me che stanno facendo un esame: due hanno vent'anni e due più di cinquanta.

Continua...
Stasera andrò al supermercato che troverò aperto fino alle ore 22.30 - perché vivo in un paese piccolissimo, altrimenti sarebbe aperto 24 ore su 24 -, e lì troverò tutti i prodotti biologici che voglio, sceglierò di mangiare come mi pare e secondo le tradizioni di mezzo mondo.

consegna del dottorato (accanto a Barbara c'è il direttore di tesi, prof. Djelal Kadir)

E per quanto riguarda le difficoltà?
Le difficoltà, profonde, che hanno tutte le persone cresciute in una cultura mediterranea dove il rapporto con il proprio corpo, il corpo dell'altro, il rapporto con gli spazi, e il modo di intendere le relazioni personali sono molto diversi da quelli di una cultura di tradizione anglosassone. Per quanto riguarda il lavoro, l'affermazione professionale, e la possibilità di realizzare le mie aspettative, non ho avuto nessuna difficoltà; ero pronta per l'“America” da molto, molto prima di venirci.

Alla luce della tua esperienza negli USA cosa significa, per te, la parola “integrazione”? E come italiana che vive all'estero, quali sono le tue considerazioni sulle problematiche relative all'integrazione di persone che arrivano in Italia per cercare migliori condizioni di vita?
Quando ero studentessa di dottorato, nella mia classe di Critica Letteraria eravamo seduti intorno ad un tavolo, tutti i giorni, io, italiana, un'irlandese, un ebreo americano, un'israeliana, una musulmana kwaitiana, una cinese, due kenyote, un giapponese, un marocchino e un tunisino. Bei tempi. Mi mancano. Nel periodo del Ramadan, gli amici musulmani lasciavano l'aula dopo il tramonto per qualche minuto e andavano a mangiare un boccone. A nessuno sembrava strano. La mia amica kwaitiana, ogni giorno alle tre apriva il tappetino nel suo ufficio e pregava: un ufficio che divideva con altri dieci studenti, dieci cubicoli con altrettante scrivanie. A nessuno sembrava strano. Il 9 settembre 2001, io e la mia amica kwaitiana siamo andate a New York ad accompagnare i figli di lei all'aeroporto. Alle tre ci siamo fermate perché doveva pregare. Abbiamo pregato insieme, lei verso La Mecca, io verso la mia versione di Dio. Sempre quell'anno siamo andate insieme a vedere l'Oedipus Rex, a New York, messo in scena dalla compagnia nazionale di Atene. Non era l'unica a portare il velo in teatro, ce n'erano tante di donne col velo. La sera prima eravamo a casa sua e mangiavamo per terra, sul tappeto, con le mani. Mi ricordo che in quell'occasione il marito mi regalò la versione inglese autorizzata del Corano perché ero curiosa di capire un paio di cose. Ho un'altra amica carissima di tradizione musulmana, diversa però dalla prima. Lei è pakistana; ha sposato qualche anno fa il figlio di un diacono cattolico, e quest'anno ha preparato per la prima volta il pranzo natalizio per i suoceri e la famiglia del marito. Conservo la foto del suo matrimonio, celebrato in una moschea a New York. Poi lo hanno ricelebrato in Pakistan, poi in America... diversi dei miei amici sono coppie miste e i loro matrimoni sono sempre affari di due o tre stati! Vorrei aggiungere un'ultima cosa.

Dimmi pure!
Riguardo all'aspetto giuridico, siamo tutti soggetti alla legge del Paese in cui ci troviamo e non credo debba o possa essere altrimenti. Le leggi si possono e si devono migliorare, dove necessario.

Vivendo negli USA c'è una caratteristica del tuo essere italiana che hai “riscoperto” e di cui puoi dirti fiera?
Non mi piace la parola “fiera”. Fortunatamente, storicamente gli italiani hanno sempre avuto quella che viene indicata dagli addetti ai lavori (studiosi e intellettuali) come “weak national identity”, identità nazionale debole, nel senso che non siamo dei forti nazionalisti - con le dovute eccezioni ideologiche e storiche -, e meno male, anche se purtroppo la classe governativa del nostro paese sta cercando in tutti i modi di farci irrigidire dentro immaginari scafandri nazionalistici per il pessimo lavoro che sta facendo con l'immigrazione... Ripeto, non mi piace la parola fiera, ed è pur vero che sono più italiana qui di quanto non lo sia in Italia; qui ci si aspetta da me che io sia "italiana" e che quindi la mia persona e le mie abitudini corrispondano a tutta una serie di stereotipi. Il mio lavoro consiste nello smontarli, quegli stereotipi e io mi diverto a farlo. Ora finalmente ti rispondo... ho riscoperto di essere molto legata alla mia terra, al mare, alle strade di Napoli, agli odori, ai panorami, ai palazzi. Non sono invece legata a molta della mentalità e delle abitudini di noi italiani, riesco a farne a meno benissimo. Ci sono cose che non riuscivo ad accettare prima di lasciare l'Italia, da quando ero ragazzina, e che ancora non capisco: perché i figli restano a casa fino a trent'anni pur avendo un lavoro, perché le madri italiane continuano ad educare i ragazzi italiani in un certo modo, perché bisogna per forza appartenere ad una cappella ideologica, politica o religiosa che sia. Perché il giardino della villa del signor Tizio è pulitissimo e bellissimo e il marciapiede subito fuori dal suo cancello è disastrato, pieno di erbacce e sporco? Perché la gente guarda le veline in TV? Cose così. Ci sono altrettante cose degli USA che non capisco, ovviamente. Io credo sia importante essere capaci di vivere sempre in una posizione di dislocamento intellettuale, senza omologarsi mai, per essere più aperti e capire meglio l'altro. Lo dobbiamo al genere umano e alla terra tutta.

foto di compleanno

Chi è – e perché – il tuo autore italiano preferito?
Non ho un autore preferito in assoluto. La mia autrice italiana preferita in questo momento è Igiaba Scego; la leggo con molto piacere insieme ad altri autori italiani di origini straniere come Ingy Mubiayi, ad esempio, perché sono gli unici che mi raccontano l'Italia di domani mentre sta arrivando, insieme a quella di oggi. Mentre il governo italiano rimanda i barconi in Libia, loro mi raccontano di coppie miste, di bambini "bicolori", di realtà diverse, a volte tristi, a volte da ridere, ma comunque realtà nuove e mi sento elettrizzata. (a cura di Carlo Silvano)
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