giovedì 7 novembre 2024

Nella notte in cui fu tradito...


Quando, durante la Santa Messa, ascolto le parole del sacerdote che dice: “Nella notte in cui fu tradito…”, sento un momento solenne che va oltre la consuetudine della liturgia. Mi sembra quasi che il tempo si fermi e che quelle parole risuonino non solo nelle mie orecchie, ma nel profondo del mio animo. In quel breve istante, la celebrazione della Messa diventa anche un invito personale a fermarmi e riflettere.

La frase “nella notte in cui fu tradito” non parla solo di un evento storico. È un ricordo che richiama il sacrificio di Gesù e l’amore con cui ha accettato di donarsi per noi, anche quando uno dei suoi amici più vicini lo ha tradito. Questa riflessione mi fa rendere conto di quanto la sua scelta di accettare la sofferenza e la morte sia una lezione di amore incondizionato, uno slancio di misericordia che abbraccia ogni uomo e ogni donna, me compreso. Nonostante la nostra fragilità, le nostre cadute e i nostri tradimenti, Gesù ha scelto di amarci fino alla fine.

Ogni volta che il sacerdote pronuncia queste parole, mi domando: come rispondo a un amore così grande? Sono consapevole di quanto la mia vita e le mie azioni riflettano il dono che ho ricevuto? Oppure, come Giuda, mi lascio sopraffare da paure, egoismi e debolezze che mi allontanano da Lui?

Questa frase mi invita a riconoscere le mie infedeltà, non con senso di colpa sterile, ma come occasione per chiedere perdono e rinnovare la mia fedeltà. È un momento di verità, un invito a riflettere sul mistero della nostra fede, su cosa significa davvero seguire Cristo e imitarlo nell’amore e nel perdono. Fermarmi a riflettere in questo momento della Messa è un modo per non vivere la liturgia solo come un rito esterno, ma come un’esperienza intima che mi trasforma.

Capisco che questa frase è un richiamo costante a riconoscere la mia chiamata a essere testimone dell’amore di Cristo nel mondo, a rispondere con umiltà e gratitudine a quel sacrificio. Quando ascolto “nella notte in cui fu tradito”, sento, quindi, che anche a me è chiesto di scegliere: accogliere quell’amore nella mia vita e fare di ogni giorno una risposta a quel dono immenso. (Carlo Silvano)

 


Pollena Trocchia, Conoscere per arricchirci e arrivare a Dio

 

«Lascia che la conoscenza cresca, che la vita si arricchisca» è, a mio avviso, un’affermazione che richiama una visione profondamente cristiana del rapporto tra conoscenza e vita, un binomio che nel Vangelo e nel Catechismo della Chiesa cattolica trova senso e direzione nell’amore e nella verità di Dio.

1. La conoscenza come cammino verso Dio

Nel Vangelo, Gesù invita a cercare la verità e la sapienza come vie che conducono a Lui, che è “via, verità e vita” (Giovanni 14,6). La conoscenza non è, quindi, un fine in sé, ma un mezzo per scoprire e incontrare Dio. Il desiderio di conoscere diventa, per il cristiano, un desiderio di comprendere meglio la creazione, le Scritture e il mistero di Cristo, con la consapevolezza che ogni cosa è ordinata verso la verità divina. Il Catechismo sottolinea infatti che “l'uomo è chiamato alla beatitudine divina, attraverso la conoscenza e l’amore di Dio” (CCC 1721). Questo ci insegna che la conoscenza, per quanto importante e arricchente, acquista il suo vero valore quando orientata verso il bene supremo e verso Dio.

2. La vita che si arricchisce nella relazione con l’altro

L’affermazione suggerisce anche che la conoscenza non dovrebbe essere un semplice accumulo di informazioni, ma un elemento che arricchisce e trasforma la nostra vita, rendendola feconda per noi e per gli altri. Come afferma san Paolo, “La scienza gonfia, mentre la carità edifica” (1 Corinzi 8,1), indicando che la conoscenza sterile, priva di amore, porta solo a un egoismo vuoto. Al contrario, la conoscenza che arricchisce la vita è quella che promuove l’amore e il servizio verso il prossimo. Il Catechismo aggiunge che “la conoscenza e l’amore di Dio si sviluppano grazie alla preghiera, all’osservanza dei comandamenti e alla partecipazione alla vita della Chiesa” (CCC 1814), che orientano la vita cristiana verso una pienezza di senso.

3. La conoscenza nella luce della sapienza cristiana

L’invito a far crescere la conoscenza si collega al dono della sapienza, uno dei doni dello Spirito Santo, che permette al cristiano di vedere le cose alla luce di Dio e vivere in armonia con la Sua volontà. Come insegna il Catechismo, “i doni dello Spirito Santo sono disposizioni permanenti che rendono l’uomo docile a seguire le ispirazioni divine” (CCC 1830). In questo senso, la vera conoscenza non è solo intellettuale, ma spirituale: un discernimento che permette di vivere e operare con amore, giustizia e umiltà.

4. La conoscenza e il dovere di testimonianza

Infine, il Vangelo ci invita a far fruttare i talenti e le conoscenze ricevute (Matteo 25,14-30). Lasciar crescere la conoscenza implica anche un impegno di testimonianza e di responsabilità, per contribuire alla costruzione del Regno di Dio sulla terra, utilizzando i doni ricevuti per il bene della comunità. La Chiesa ci incoraggia infatti a vivere e testimoniare la verità con “libertà e responsabilità” (CCC 2467), affinché la nostra vita sia arricchita nella misura in cui essa arricchisce e serve gli altri.

In conclusione, la conoscenza che cresce in senso cristiano è quella che, illuminata dalla fede, porta a un arricchimento interiore e alla capacità di vivere una vita piena, realizzando il proprio cammino di fede e servizio con la consapevolezza di essere parte di un disegno di amore divino. Solo così la vita si arricchisce davvero: quando è radicata nell’amore di Dio e nella carità verso il prossimo. (Carlo Silvano)

 


 


 

sabato 19 ottobre 2024

Pollena Trocchia, "La bambina della masseria Rutiglia" e lo scoppio della motonave "Caterina Costa"

La bambina della masseria Rutiglia”, di Carlo Silvano, è un racconto che offre una finestra sulla vita di Carmelina, una bambina che cresce in un contesto rurale durante la Seconda guerra mondiale, ovvero nella masseria Rutiglia, sul confine tra i comuni vesuviani di Cercola e Pollena Trocchia. Attraverso gli occhi della protagonista, il lettore viene trasportato in un mondo dove le difficoltà quotidiane si intrecciano con le paure e le incertezze della guerra. Tra i capitoli più significativi c’è quello che racconta l’esperienza traumatica dell’esplosione della motonave “Caterina Costa” nel porto di Napoli il 28 marzo 1943. Questo episodio, narrato con delicatezza e intensità, cattura l’impatto della guerra sul quotidiano di una bambina e della sua comunità.

Il capitolo si apre con una scena bucolica: Carmelina percorre un viottolo di campagna e i suoi pensieri da bambina sono già pervasi dalle preoccupazioni degli adulti. Qui emerge con forza la contrapposizione tra l’innocenza dell’infanzia e la durezza della realtà circostante. Carmelina è costretta a confrontarsi con la povertà crescente e l’ombra della guerra che si avvicina sempre di più. Per questa descrizione viene utilizzato un linguaggio semplice, ma evocativo, capace di trasmettere l’angoscia di chi, pur essendo giovane, sente il peso di un futuro incerto.

La descrizione del boato improvviso, che interrompe la gara di proverbi tra le bambine, è un momento di grande intensità narrativa. Quel suono assordante, che getta il gruppo di ragazzine nel panico, diventa il simbolo dell’irrompere della guerra nella loro quotidianità. Nessuna di loro comprende subito cosa sia accaduto, e l’episodio rivela l’ingenuità e la vulnerabilità di questi piccoli protagonisti, abituati a un mondo in cui i pericoli erano fino a quel momento lontani e astratti.


Solo nei giorni successivi, ascoltando i discorsi degli adulti, Carmelina e le sue coetanee apprendono i dettagli della tragedia: la grande nave esplosa nel porto di Napoli, la “Caterina Costa”, e le centinaia di vittime, soprattutto militari. Le pagine di questo capitolo rendono tangibile l’atmosfera di apprensione e dolore che avvolge la comunità attraverso piccoli dettagli della vita del borgo, come i racconti sussurrati dai genitori quando credono che i figli dormano. Questi frammenti di dialoghi, raccolti quasi per caso dalla bambina, dipingono un quadro vivido della paura e della sofferenza che la guerra porta con sé.
 
 L’episodio del futuro marito di Carmelina, che racconta di essere stato chierichetto nella chiesa di Cercola durante l’esplosione, aggiunge una dimensione di memoria personale e familiare al racconto. Questa testimonianza incrociata, che unisce la vicenda di Carmelina e quella dell’uomo che diventerà suo marito, permette di comprendere come l’esperienza della guerra abbia segnato profondamente non solo il presente, ma anche il futuro dei personaggi.

Il capitolo si chiude con un’immagine di speranza e di riflessione. Anni dopo, ormai madre, Carmelina porta alcuni dei suoi figli sul lungomare di Napoli e, indicando i segni dell’esplosione ancora visibili sulle mura di “Castel Nuovo”, pronuncia una frase semplice, ma carica di desiderio: «La guerra è una tragedia: speriamo che non si ripeta più». Questo momento racchiude tutta la consapevolezza e la sofferenza accumulata nel corso degli anni, e al tempo stesso trasmette il bisogno di costruire un futuro migliore per le nuove generazioni.

In sintesi, questo capitolo del racconto intitolatoLa bambina della masseria Rutiglia”, di Carlo Silvano, rappresenta un passaggio cruciale nella narrazione, dove la dimensione intima dell’infanzia si scontra con la brutalità della storia. L’autore riesce a descrivere con sensibilità il trauma della guerra visto attraverso gli occhi di una bambina, proponendo un ponte tra la memoria personale e quella collettiva. La storia di Carmelina diventa così un simbolo della resilienza di chi, nonostante la violenza del conflitto, conserva la speranza e il desiderio di un mondo di pace.

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Per reperire una delle due edizioni del racconto, cliccare sul collegamento La bambina della masseria Rutiglia

 

 



mercoledì 16 ottobre 2024

Lettera all'arcivescovo Domenico Battaglia per sollecitare un suo intervento in merito all'auspicata rimozione della "statua di Pulcinella"

 

Qui di seguito propongo una lettera che ho recentemente inviato all'Arcivescovo di Napoli, Domenico Battaglia, per sollecitare un suo intervento presso il Sindaco di Napoli, in merito all'auspicata rimozione della cosiddetta "statua di Pulcinella" installata nel centro della città.

Rev.do arcivescovo Domenico Battaglia,

mi permetto di rivolgermi a Lei animato dal profondo desiderio di vedere Napoli, la nostra amata città, preservata nella sua dignità e nella sua vocazione alla bellezza. Mi chiamo Carlo Silvano, sono originario di Cercola e, pur vivendo dal 1999 nel Veneto, il legame con la mia terra e le sue radici è rimasto sempre vivo. Le scrivo per sottoporre alla Sua attenzione una questione che ha suscitato in me, e in molti altri campani, disappunto e tristezza: l’installazione della cosiddetta “statua di Pulcinella”, opera dell’artista Gaetano Pesce, recentemente inaugurata nel contesto del progetto “Napoli contemporanea”.

Questa scultura, pur con l’intenzione di omaggiare una figura iconica della nostra tradizione, ha suscitato perplessità e, in molti casi, profonda indignazione. La sua forma, che richiama simboli ambigui e inappropriati, è percepita da molti come un affronto alla città, alla sua storia e alla sua identità culturale. Il titolo dell’opera, “Tu si ‘na cosa grande”, non fa che rafforzare i dubbi sul messaggio veicolato dalla statua, apparendo più come una provocazione che come un autentico tributo a Pulcinella.

Eccellenza, mi rivolgo a Lei perché credo che la voce della Chiesa possa aiutare a guidare questa riflessione verso un ritorno alla bellezza autentica e al rispetto delle sensibilità della popolazione. La nostra città, culla di arte e cultura, merita di essere rappresentata con dignità, riflettendo quei valori che hanno radici profonde nel Vangelo. Gesù ci insegna che la verità e la bellezza sono inseparabili, come quando ci invita a riconoscere la bellezza della creazione e a coltivare la nostra capacità di ammirarla con purezza di cuore: “Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio” (Mt 5,8). Napoli, nella sua lunga storia di fede, ha sempre cercato di incarnare questa purezza, non solo nelle sue chiese e nei monumenti, ma anche nella sua anima popolare, che trova in Pulcinella una maschera genuina e non volgare.

Alla luce del Catechismo della Chiesa Cattolica, la bellezza assume un valore pedagogico e spirituale, poiché è riflesso dell’armonia divina e strumento di elevazione dell’animo umano (CCC 2500-2503). L’arte, nella sua forma più alta, deve mirare a ispirare, a elevare lo spirito verso il bene e il vero. Ma quando una rappresentazione, come in questo caso, suscita disorientamento e offesa, diventa lecito domandarsi se stia rispettando questa vocazione. Per questo mi permetto di chiederLe di intercedere presso il sindaco Gaetano Manfredi, affinché possa valutare la rimozione della statua, restituendo così alla nostra città un’immagine che sia davvero degna della sua storia e del suo spirito.

Sono certo che la Sua sensibilità pastorale e il Suo amore per Napoli sapranno accogliere questa mia riflessione come un gesto di affetto e preoccupazione per la nostra comunità. RingraziandoLa fin d’ora per la Sua attenzione, confido che il Suo intervento possa portare a una riflessione più profonda e a una soluzione rispettosa delle tradizioni e dei valori della nostra amata città.

La saluto cordialmente, chiedendo la Sua benedizione.

Carlo Silvano

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sabato 12 ottobre 2024

Lettera al sindaco di Napoli, Gaetano Manfredi, per chiedere la rimozione della cosiddetta "statua di Pulcinella"

 

Egregio signor sindaco Gaetano Manfredi,

mi chiamo Carlo Silvano e sono originario di Cercola (Napoli), ma dal 1999 vivo nel Veneto. Le scrivo per esprimerLe il mio disappunto e la mia indignazione riguardo all’installazione della “statua di Pulcinella” realizzata dall’artista Gaetano Pesce, e recentemente inaugurata nel contesto del progetto “Napoli contemporanea”.

Questa scultura, che avrebbe dovuto rappresentare una figura iconica come quella di Pulcinella, ha invece suscitato imbarazzo e indignazione anche tra i campani che vivono fuori dai confini della regione. La sua forma, che ricorda più un simbolo fallico che la maschera napoletana tanto cara alla nostra tradizione, è considerata da molti come un’offesa alla città. Anche il titolo dell’opera, “Tu si ‘na cosa grande”, non ha certo aiutato a dissipare i dubbi sul messaggio trasmesso dall’installazione.

Napoli non merita un simile affronto. La nostra città è conosciuta in tutto il mondo per la sua storia, la sua cultura e le sue tradizioni. Ridurla a un’immagine che molti trovano offensiva è un gravissimo attacco alla dignità di Napoli e dei suoi cittadini. Comprendo che l’arte possa e debba suscitare dibattito, ma qui ci troviamo di fronte a una rappresentazione che non rispetta nulla, in particolare non rispetta né la sensibilità della popolazione, né l’orgoglio della nostra città.

Chiedo, pertanto, la rimozione immediata di questa statua, affinché Napoli possa continuare a essere rappresentata con il rispetto e la dignità che merita. Confido nella sua sensibilità e nel suo impegno per la nostra città.

In attesa di un suo riscontro, porgo distinti saluti.

Dott. Carlo Silvano

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lunedì 9 settembre 2024

Napoli: una città di contrasti

 


Napoli: una città di contrasti

Napoli è una città unica, un vero gioiello incastonato tra il mare e il Vesuvio. Ogni angolo racconta storie antiche, dall’arte che adorna i vicoli ai monumenti che svettano fieri. Qui troviamo la bellezza della nostra storia e la calorosa umanità che ci caratterizza. Ma c’è un lato oscuro che non possiamo ignorare: le tante emergenze sociali che affliggono la nostra città.

È vergognoso e straziante vedere persone che frugano tra i rifiuti per sopravvivere, o che dormono su cartoni nelle aiuole pubbliche, dimenticati da tutti. La realtà di molti cittadini napoletani è quella di vivere chiusi in casa perché non hanno alcuna fonte di reddito e patiscono tante privazioni. Sono cittadini costretti a vivere ai margini in una terra che, paradossalmente, ha tanto da offrire.

In questo contesto, parlare di accoglienza per chi arriva dall’Africa o da altre aree povere del mondo sembra quasi una beffa. Non fraintendetemi: l’accoglienza è un valore fondamentale, ma come possiamo offrire un futuro dignitoso a chi arriva se non riusciamo nemmeno a garantire una vita decente ai nostri concittadini? Troppo spesso, a queste persone non possiamo dare altro che un assistenzialismo vuoto, senza un reale percorso di integrazione e opportunità concrete.

Napoli merita di meglio. I nostri cittadini meritano di meglio. E anche chi arriva qui merita di trovare una città pronta ad accoglierli davvero, con dignità e rispetto, non solo con buone intenzioni. È tempo di affrontare queste emergenze con serietà e concretezza, per una Napoli che sappia essere davvero all’altezza della sua storia e della sua umanità. (a cura di Carlo Silvano)


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domenica 8 settembre 2024

Una ragazza da amare, Una giornata a Napoli

 

Ripensando al romanzo “Una ragazza da amare” ho scritto il testo che segue utilizzando gli stessi protagonisti.
 
Napoli, primi anni Ottanta, una mattina di marzo che promette sole e tepore dopo i rigori dell’inverno. Le strade della città cominciano ad animarsi di voci, di passi frettolosi, di piccoli negozi che alzano le serrande con un suono metallico e familiare. Fulvio, Martina, Adelaide e Giulio, quattro liceali del classico, amici inseparabili e compagni di classe, si ritrovano davanti alla chiesa del Gesù Nuovo. La facciata scura e imponente dell’edificio, con i suoi caratteristici bugnati a punta di diamante, sembra osservare con severità le loro giovani esistenze, ancora in cerca di una strada ben definita. 
 
Dopo aver ammirato l’interno della chiesa, con i marmi policromi e le cappelle decorate, i quattro ragazzi escono con l’entusiasmo di chi si sente parte di una città che trasuda storia e arte in ogni angolo. Fulvio si ferma un attimo, come a voler imprimere nella memoria ogni dettaglio di quella mattinata. “Che meraviglia”, dice sottovoce, quasi parlando più a se stesso che agli altri. Martina, che cammina accanto a lui, annuisce sorridendo. Adelaide, sempre piena di energia, li sprona: “Andiamo, non possiamo mica rimanere qui tutto il giorno!”.
 
I quattro amici si portano prima a piazza san Domenico per una seconda sosta all’interno di una nota pasticceria e, dopo qualche minuto, raggiungono via Mezzocannone per entrare nella Facoltà di Matematica, così che Martina dalle segreteria possa avere alcune informazioni che le occorrono. In fine, i quattro amici, si dirigono a Port’Alba. La loro meta è un ristorantino noto tra gli studenti e i professori, un luogo che sembra sospeso nel tempo, dove il profumo della cucina si mescola a quello dei vecchi libri delle bancarelle all’ingresso. Salgono al primo piano, accolti da una sala semplice, ma accogliente. Alle pareti, un grande affresco raffigurante piazza Dante Alighieri cattura lo sguardo. La scena è un omaggio alla loro città: il poeta in piedi su un alto basamento al centro della piazza, ha uno sguardo severo rivolto ai passanti, quasi a ricordare l’importanza della cultura e della conoscenza. 
 
I ragazzi si siedono al tavolo indicato loro da un anziano e simpatico cameriere, e sotto le mani avvertono il legno liscio mentre ai loro orecchi giungono le voci dei presenti che si mescolano in un confortevole brusio. L’ambiente è tranquillo, sobrio, con un’atmosfera familiare che li fa sentire a casa. Ordinano senza fretta: Fulvio e Martina scelgono spaghetti alle cozze, Adelaide opta per le linguine allo scoglio, mentre Giulio si lascia tentare dagli gnocchi alla sorrentina. E per finire, una frittura di calamari e gamberi da condividere, perché il piacere del cibo si moltiplica quando è condiviso.
 
I profumi inondano la sala mentre i piatti arrivano al tavolo: l’aroma intenso delle cozze, il profumo salino delle linguine allo scoglio, il sugo ricco e filante degli gnocchi alla sorrentina... Ogni boccone è un’esplosione di sapori che parla di mare, di sole, di tradizioni che si tramandano da generazioni. Tra un assaggio e l’altro, i ragazzi ridono, scherzano, raccontano le loro storie. Adelaide sfoggia una battuta delle sue, facendo scoppiare in una risata Martina, che si era appena portata una forchettata di spaghetti alla bocca. Giulio si volta verso Fulvio, sollevando il bicchiere: “Buon compleanno, Fulvio!” esclama. E tutti insieme brindano, con quell’entusiasmo tipico della gioventù, che sembra non conoscere limiti né confini.
 
Dopo il pranzo i quattro amici iniziano a curiosare tra le bancarelle di libri che affollano Port’Alba. I tavolini sono colmi di volumi, alcuni ingialliti dal tempo, altri nuovi, brillanti sotto il sole. L’odore della carta si mescola a quello del cibo appena consumato, generando una magica miscela di sensazioni ed emozioni che li avvolge completamente. Sfogliano i libri, si scambiano consigli, si regalano sorrisi. Martina, con gli occhiali scivolati sul naso, trova un vecchio tomo di matematica che lo affascina; Fulvio, con la sua immancabile vivacità, sfoglia un romanzo d’avventura, sognando ad occhi aperti nuovi mondi, mentre Giulio e Adelaide si concentrano sulla biografia di un noto politico. 
 
Ogni istante trascorso insieme è prezioso, ogni parola condivisa è un tassello che va a comporre il mosaico della loro amicizia. Sanno di vivere in una città carica di storia, di bellezze artistiche e naturali. Napoli è per loro una maestra silenziosa, che insegna attraverso i vicoli stretti e le piazze affollate, che parla con la voce dei suoi monumenti e delle sue chiese. Fulvio osserva gli altri tre con uno sguardo che trasuda gratitudine: “Siamo fortunati”, dice, e subito aggiunge: “Napoli è una città che ti resta dentro”. Martina, Adelaide e Giulio annuiscono. Sanno che, in quel momento, tra il profumo di cozze, il suono delle risate e le bancarelle di libri, stanno vivendo un frammento di felicità pura, di quella che solo gli anni della gioventù, quando tutto è possibile e il futuro è ancora un’avventura, possono regalare. (Carlo Silvano)
 

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